Quando andavo all'università e macinavo pile di libri una dietro l'altra, capitava che alcuni di quei libri non li comprassi, vuoi perchè costavano troppo, vuoi perché erano fuori catalogo, vuoi perché li trovavo in biblioteca o me li prestava qualcuno. Andò così con un volume intitolato Pragmatica della comunicazione umana (1967) di Paul Watzlavich e una pletora di altri autori. Me lo prestò una compagna di appartamento e poi, superato l'esame, glielo ridiedi indietro.
Ma era un gran bel libro, e ho sempre avuto una mezza intenzione di comprarmene una copia, anche se poi non l'ho mai fatto perché ho sempre dato la precedenza ad altri testi. Eppure, prima o poi, cascasse il mondo, una copia di quel libro finirà su uno scaffale di casa mia. Era scritto in maniera straordinariamente chiara e scorrevole, e metteva in luce una serie di dinamiche del linguaggio e della comunicazione che una volta lette sembravano l'uovo di Colombo, ma prima mi erano non dico ignote, ma non altrettanto chiare.
Quella fondamentale, che ritornava con una certa frequenza, era la tesi che nella maggior parte dei casi chi partecipa a una conversazione si dà un gran da fare non tanto per sviluppare gli argomenti e portare il discorso da qualche parte, ma per "affermare se stesso". Dare opinioni, ragionare insieme su una cosa, confrontare punti di vista, raccontare esperienze, anche il semplice chiacchierare, spesso e volentieri sono solo modi per attirare l'attenzione degli altri su di sé. L'esempio più tipico riportato da Watzlavich era quello delle persone che si incontrano nella sala d'aspetto del medico e iniziano a raccontarsi i rispettivi problemi di salute. Spesso diventa una gara a dire "Io ho avuto questo", "Pensi invece cosa è successo a me", "Ma voi non sapete cosa ho passato io"... uno squallido gioco al rialzo in cui la posta in gioco è l'attenzione su se stessi.
[Inciso numero 1: in fondo, basta saperlo. Anche i blog, alla fine, ricadono facilmente in questa dinamica. Sono "discussioni" a senso unico (a parte lo spazio per i commenti) e ci vuole poco a farli diventare esercizi onanistici di autoaffermazione. Io stessa in questo momento, sotto sotto, mi sto "vantando" con voi di avere studiato questo bel testo di Watzlavich. Io sì e voi no, trallallerollerollà. E un'altra parte di me si sta vantando di essere talmente consapevole e sincera da poter affermare che mi sto vantando. E così via. Ma se uno si incarta in questa infinita spirale, poi non parla più. Quindi andiamo avanti.]
C'è un altro testo, che ho letto parecchi anni fa e che mi è tornato in mano nei giorni scorsi. Mi vergogno un po' a rivelarne il titolo perché ha un sapore da cretinata new age che è parecchio fuorviante... ad ogni modo, mi riferisco a Vivere, amare, capirsi di Leo Buscaglia (1982). Si tratta di una raccolta di conferenze tenute negli anni da questo strano soggetto che si definiva "professore in amore" ed era in sostanza un sociologo con grandi doti comunicative, molte esperienze da condividere, e infine un carattere ottimista ed estroverso. Non è uno di quei libri che invitano all'autoaffermazione di sé (quelli che hanno titoli come Prendi la vita nelle tue mani o Fai vedere al mondo chi sei, roba del genere), ma piuttosto ad un'interazione molto attiva, intensa e affettuosa fra se stessi e gli altri; una vita di relazione che costruisca un delicato equilibrio fra le esigenze proprie e quelle altrui.
Ovviamente ci sono pagine più o meno convincenti, righe che restano impresse a lungo e altre ben più facili da dimenticare. Queste sono, a mio avviso, fra le più interessanti:
A me toccò uno degli ultimi turni. Eravamo soli nella stanza, io e mia madre. All'improvviso lei aprì gli occhi. Aveva occhi grandissimi, scuri, meravigliosi. Un attimo prima avevo pensato: «Mi mancherà moltissimo. Era una grande donna, stavamo così bene insieme, e lei aveva sempre un sorriso e un cioccolatino per me. E mi mancherà il suo aglio». Avete notato che dicevo sempre me? «Io farò questo, e mi mancherà quest'altro, e non mi lasciare!»
Questa settimana è venuta nel mio ufficio una ragazza, e per quasi un'ora è rimasta lì a parlare di «me, me, me!». Ecco una delle sue frasi: «Non sono sicura di sapere che cosa voglio dalla vita». E alla fine, questo vostro buon vecchio consulente ha urlato: «Cosa diavolo dà lei alla vita?». Ogni giorno prendete qualcosa dalla terra, prendete qualcosa dall'aria, prendete qualcosa dalla bellezza... che cosa date in cambio? Non pensiamo di dare qualcosa in cambio, vero?
In fondo, non è che un invito a sforzarsi di superare l'abitudine dell'autoaffermazione postulata da Watzlavich nel suo libro.
[Inciso numero 2: "postulata". Visto quanto sono colta? visto che belle parole so usare? visto come sono pronta ad ammettere che me la sto tirando? visto come sono brava, dal momento che sono pronta ad ammetterlo? e l'infinita spirale ricomincia...]
A volte riesco a farci caso, a quando le conversazioni prendono la "piega Watzlavich" e quando invece innescano un meccanismo disinteressato di costruzione di un ragionamento, comparazione di punti di vista, condivisione di pensiero. Ebbene sì, può capitare. Rendersi conto di quando accade è sempre una piccola ma gustosa epifania che arriva inaspettata e lascia a lungo un buon sapore sulla punta della lingua. Mi è capitato anche un paio di domeniche fa e ci ripenso ancora con soddisfazione.
Andando ancora più in fondo, quei brani di Buscaglia mi riportano con la memoria a quell'accidente di brano di Vangelo che avevo citato qui e che, nonostante la mia lontananza dalla fede cattolica, continua a sembrarmi l'esemplificazione più evidente e forte del desiderio di andare OLTRE l'abitudine, OLTRE il desiderio di ottenere attenzione, OLTRE il comune arrendersi all'egocentrismo.
Poi, per carità, nessun uomo è un'isola, e il desiderio di essere amati e apprezzati dal prossimo ha radici profonde e non immotivate. Ma riuscire, anche una sola volta in più al giorno, a guardarlo, il prossimo, invece che a cercare di farsi guardare da lui, non sarebbe malaccio. Certo però, che fatica.
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