mercoledì, febbraio 17, 2010

I Dreamed a Dream


Posso dirlo, o sta tanto, tanto male?
Posso dirlo, o qualche casalinga tracagnotta vorrà spararmi addosso con la lupara?
Posso dirlo, o qualche difensore del politically correct vorrà stirarmi con la macchina sulle strisce pedonali?

Va beh, io lo dico: a me Susan Boyle non sembra tutto 'sto fenomeno.

Intendiamoci: la voce ce l'ha e la sa usare (a parte che si nota spaventosamente il cambio di registro sulle note alte, ma è un peccato veniale). Però, che questa donnetta rappresenti chissà quale rivincita del vero bel canto sulle regole dello showbiz, proprio non mi sembra.

Semmai, è una rivincita del personaggio bruttino nel mondo delle top-model e delle siliconate, questo sì; e intendiamoci, non è poco.

Ma la signora non è una cantante sopraffina, non è una di quelle che con la voce fanno veri miracoli: non è Barbra Streisand, non è Aretha Franklin, non è Giorgia. Potrà arrivarci continuando a studiare e a raffinare il potente strumento che la natura le ha regalato, ma la sua interpretazione di "I Dreamed a Dream" non è tutta 'sta cosa, nonostante ormai la gente sia convinta che quella sia una canzone di Susan Boyle, proprio come in tanti credono che "Memory" sia una canzone di Barbra Streisand invece che un brano tratto da Cats, che poi Barbra Streisand ha inciso in un suo disco.

Se ci fosse una reale rivincita del bel canto sullo showbiz, allora a Sanremo ci inviterebbero, che so... Ruthie Henshall, Lea Salonga, Kerry Ellis, Judy Kuhn, Laura Michelle Kelly, Maria Friedman o qualsiasi altra brava interprete del teatro musicale del West End o di Broadway. Ma le regole dello showbiz, se a volte accettano di lasciarsi infrangere da qualche sporadico caso di "bruttina di talento", difficilmente portano le telecamere nei teatri, dove si nasconde la gente davvero in gamba; c'è il pericolo che poi gli spettatori televisivi imparino a distinguere il grano dalla crusca.

Qui sotto, "I Dreamed a Dream" cantata da Susan Boyle, live a Sanremo; cambio di registro troppo evidente, parole non sempre nitide, interpretazione accettabile.



Qui, invece, la stessa canzone cantata da Ruthie Henshall, live alla celebrazione dei 10 anni del musical Les Miserables; voce precisa senza una sbavatura, cambi di registro impercettibili, interpretazione densissima (tanto da arrochire la voce sulle parti in cui il personaggio si lascia prendere dalla collera) nonostante si tratti di una versione concerto del musical: gli interpreti sono in costume ma non c'è una "vera" messa in scena.



La vedremo mai, una Ruthie Hanshall ospite di uno spettacolo di massa come Sanremo? Mah. Ricordo che, anni fa, Vanessa Williams fu invitata al Pavarotti & Friends. Poteva essere l'inizio di un percorso, invece fu un caso isolato. Speriamo nel futuro.

venerdì, febbraio 12, 2010

Autostima


Due microeventi odierni mi hanno fatto tornare alla mente un ricordo singolare.

Primo microevento. Insieme alle amiche che ho conosciuto un annetto fa al corso preparto, avevamo organizzato una rimpatriata con i pargoli... poi in realtà abbiamo dovuto annullare tutto perché è venuto giù un mezzo nubifragio e nessuna mamma era entusiasta all'idea di mettersi in ballo con macchina, passeggino, ombrello e quant'altro, ma sta di fatto che ero stata per un paio di giorni nel [mode rimpatriata corso preparto on].

Secondo microevento. Saltellando per siti e blog, mi imbatto in questo, nella cui homepage campeggia questa frase: "E' molto facile trascorrere un'ora parlando dei propri problemi. Quando parliamo dei nostri sogni invece, cinque minuti ci sembrano lunghissimi: gli ostacoli ci fanno credere che siano sogni impossibili".

Alla lettura di quelle righe, i neuroni hanno fatto zot e hanno ricostruito un ricordo che risale al suddetto corso preparto. Prima lezione: ci si presenta, ci si conosce, insomma le solite cose. Siccome oltre che un corso sugli aspetti più pratici della gravidanza e del parto doveva essere anche un'occasione di relax fra ragazze/donne che avevano tutte in corpo la stessa eccitazione e la stessa fifa, si cominciava con un esercizio un po' new age: "Dividetevi a coppie e raccontate l'una all'altra cinque vostri pregi", dice la coordinatrice del corso.

Aveste visto le facce.
"Cinque pregi?"
"In che senso?"
"Cioè delle cose buone di noi?"
"Delle qualità?"
"Ma cinque?!?!?"
"Cinque sono tante..."

Sembrava che ci avessero chiesto di scalare l'Everest. A me venivano in mente più che altro delle referenze da colloquio di lavoro... "So scrivere bene in italiano, ho dato l'esame del First Certificate per la lingua inglese, non mi spaventa l'idea di lavorare anche tante ore di seguito..." Ma ovviamente non era quello il genere di pregi che dovevamo rivelare.

Poi, vabbè, in qualche modo tra una risata e l'altra, ce la siamo cavata. Sinceramente non ricordo cosa ho tirato fuori, tranne una mia qualità nella quale credo molto, che è la fedeltà (se ti viene l'idea di tradire la persona con cui stai, lasciala che fai prima; secondo me, chi tradisce ha un forte sostrato di cretineria nel suo DNA).

Ma a parte il risultato dell'esercizio, è stato sorprendente constatare quanto l'idea di scovare aspetti piacevoli di se stessi, e di doverli pure raccontare a qualcun altro, fosse comica e imbarazzante. Non me ne ero mai resa conto prima.

P.S. Ah... cosa c'entra la foca all'inizio, volete sapere? E' la fotografia che all'epoca mandavo agli amici che mi dicevano "dài, mandami una foto di te col pancione". Tanto, più o meno la stazza era quella... :-P

venerdì, febbraio 05, 2010

Alcune considerazioni su "Nine"

Ieri sono finalmente andata al cinema a vedere Nine (e ho fatto bene, perché già da oggi non lo danno più). Non mi è affatto dispiaciuto, e a fronte del sei, massimo sei e mezzo, che gli aveva dato Simona (amica e "musical-journalist" di Cineblog), io arriverei a un sette, e forse pure sette e mezzo.


Devo ammettere che questo film ha un grosso problema, il quale influisce un po' su tutto il resto: una lentezza esasperante nello sviluppo della trama. A teatro funziona meglio, perché essere lì di persona, dal vivo, permette di godersi al massimo tutti quegli altri elementi a cui la trama fa da collante e che sono però, loro, la ragion d'essere di un musical: le voci, le canzoni, la musica dal vivo, gli arrangiamenti, i recitati, le coreografie... invece il cinema ha bisogno di un ritmo più veloce, di un minimo susseguirsi di eventi. A meno che non sia quel tipo di cinema in cui la trama è costituita proprio dal non-succedere, ma allora stiamo parlando di un cinema diverso e più raffinato, e Rob Marshall non è mica Antonioni.

Altra questione (occhio, qui partono gli spoiler): quando, a venti minuti dalla fine, una svolta nella trama finalmente arriva e conduce al finale, non è sufficientemente motivata. Cosa imprime la svolta al comportamento e alle azioni di Guido? Il fatto che l'amante si sia quasi uccisa? Il fatto che la moglie lo abbia piantato? Aver sognato la madre che gli dice (udite udite) "solo tu puoi decidere il tuo cammino"? I due anni passati lontano da tutto e da tutti? La chiacchierata con l'amica costumista? Insomma cosa? Potrebbe essere uno di questi elementi, potrebbe essere un misto di tutti, potrebbe essere la semplice consapevolezza di essere un cretino e un bugiardo senza spina dorsale; qualunque cosa sia, io non l'ho capito.

Il cast.
Lui, bravo. Il doppiatore, no. Il personaggio in quanto tale è di quelli che a me fanno saltare i nervi dopo un quarto d'ora ma questo è un problema mio, non sopporto i molluschi che passano il tempo ad autocommiserarsi. Nella vita come nei film.
Judi Dench, Fergie e Marion Cotillard: brave a recitare come a cantare, il che in un musical è un elemento un filino importante. Personaggi, forti e credibili, espressivi. Il meglio del film.
Kate Hudson: lei sarà anche brava ma il suo personaggio è inutile, una sciacquetta prevedibile e scontata. Se non altro, ha la funzione di mettere in moto la prima, vaga presa di coscienza del protagonista che, miracolo, decide di non andare con una sciacquetta.
Sofia Loren: poco più di un cameo, ma ben riuscito. Se lui per la madre deve avere questa specie di ammirazione divina, e se bisogna insistere sull'italianità del tutto, chi meglio di una leggenda vivente come la Loren.
Penelope Cruz e Nicole Kidman: che spreco. Per il personaggio di Carla, della serie "sembro una sciocchina ma in fondo non lo sono", non c'era bisogno di scomodare la Cruz. Quanto alla Kidman, va bene la necessità di inserire una vera diva nel ruolo, appunto, della diva, ma santo cielo se una poi deve cantare "Unusual Way", almeno che sappia cantare! (soprattutto quando nel CD più recente che c'è in commercio, il Broadway Revival 2003, "Unusual Way" è cantata da Laura Benanti, mica una vocina qualsiasi, quasi un'ottava sopra).

Qui, una ripresa pirata di Nine a Broadway (con Laura Benanti e Antonio Banderas); "Unusual Way" inizia circa a metà video.


Qui, "Unusual Way" cantata da Nicole Kidman e montata su immagini del film. Scremando il tutto dai miracoli degli studi di registrazione, credo si capisca cosa intendevo dire.


La colonna sonora: c'è chi lamenta la mancanza di grandi pezzi memorabili, a parte "Be Italian" e (forse) "Cinema Italiano". Ma è un musical, mica la Pausini. Non deve contenere brani orecchiabili al primo ascolto, deve essere qualcosa di più raffinato, qualcosa che si impara col tempo. La "Overture delle Donne" e la stessa "Unusual Way" a me sembrano deliziose (quest'ultima anzi direi struggente, la classica canzone sui rimpianti e le occasioni mancate). Che Maury Yeston non sia un mostro sacro del teatro musicale si sa, eppure qui ha fatto un lavoro onesto.

Belli l'opening e l'ending. Quest'ultimo, in particolare, con la carrellata delle protagoniste che riemergono poco a poco dalla scenografia, mi pare un bell'equivalente filmico dei final bows teatrali, che io trovo sempre commoventi.


L'inserimento dei numeri musical nel film: un po' troppo autoscopiazzato da Chicago. Preferisco i film dove la musica e il canto fanno parte della trama senza cercare scuse o escamotage; come in Moulin Rouge, per intenderci. Se il musical è un genere, teatrale e cinematografico, in cui i personaggi comunicano e si esprimono cantando e ballando oltre che parlando, allora che lo facciano e buonanotte, senza andare a scomodare allucinazioni, sogni, incubi e visioni. Per esempio la scena della fontana (quella fra Guido e Claudia) mi è piaciuta, altre molto meno.

Grandeur. La cosa buona dei musical hollywoodiani è che non hanno problemi di budget. Questo significa scenografie enormi, sfondi e panorami infiniti (Roma da tutte le parti, Roma nei palazzi e nei monumenti, Roma nelle fontane e nei tramonti, Roma, Roma, Roma!), orchestra numerosa, cori idem. Tutto ciò che può essere potenziato rispetto alla versione teatrale, che lo sia! Altrimenti perché farlo al cinema? E un bel po' di quel sette o sette e mezzo, alla fine sta proprio qui. Sta nella potenza: degli arrangiamenti, delle scenografie, e di quei due o tre personaggi di cui sopra. Da soli, tengono in piedi la baracca e la risollevano dal livello medio-basso a cui troppo spesso si avvicina.

mercoledì, febbraio 03, 2010

Tea, anyone?

Se potessi mettermi a collezionare qualcos'altro, invece che limitarmi a fumetti, tazze e altri biricoccoli, mi butterei sulle teiere: trasparenti, metalliche, colorate, disegnate... adesso poi che a cinquecento metri da casa mia hanno aperto una piccola sala da tè con annessa vendita di miscele e attrezzeria varia, la tentazione è forte e viene frenata solo dalla consapevolezza che poi non saprei dove metterle, tutte le teiere che mi piacerebbe acquistare.

Il tè non è solo una bevanda che mi piace, calda o fredda che sia. E' il sapore che la mattina mi fa superare la pigrizia e mi aiuta a mettermi in moto; è la pausa pomeridiana quando inizio ad avvertire la stanchezza della giornata; è l'aroma che mi dà la buonanotte prima di andare a letto.

Ma è anche il ricordo di interminabili merende collettive a Bologna, ai tempi dell'università; di riunioni di lavoro condite da torte e biscottini nel salotto della Grande Capessa; di chiacchiere rilassate nel nido di PurpleCri; di raduni "girls only" tra mia sorella e le sue amiche, che mi lasciavano partecipare anche se ero piccola; di graditissimo calore nelle mani dentro i locali londinesi; di lunghi racconti arretrati a casa di Monica; di qualcuno che in casa mia indugiava davanti alla tazza prima di rassegnarsi ad andare a un appuntamento di cui non aveva voglia; di momenti di relax solitari prima di intraprendere qualche nuova attività; e di tante altre cose.

Magari non potrò mettermi a collezionare teiere; però qualche aggiunta all'attrezzeria domestica penso che la farò, e otterrò qualche spunto per nuovi ricordi.

lunedì, febbraio 01, 2010

Potenza di una virgola

Sono sempre stata una maniaca della punteggiatura. Mi arrabbio quando leggo testi altrui che mostrano carenze da questo punto di vista (o peggio quando devo correggerli, tipo maestrina dalla penna rossa) e al contrario m'illumino d'immenso quando mi imbatto in testi caratterizzati da un uso accorto e creativo della punteggiatura.

Un paio di settimane fa, passeggiando per il centro mentre portavo a spasso Micaela nel passeggino, sono passata davanti alla vetrina di un negozio di abbigliamento specializzato nelle cosiddette taglie forti. Mi ha colpito la scritta che campeggiava sulla vetrina del negozio: "Le donne vere, hanno le curve!"

Quanta potenza comunicativa c'è in quel punto esclamativo, ma soprattutto in quella virgola! Che peraltro, a voler essere pignoli, lì non ci dovrebbe stare in quanto divide il soggetto dal verbo: anatema!

Quella virgola è, tanto per cominciare, una pausa nella lettura della frase: le donne vere, pausa, hanno le curve! Ma quella pausa a sua volta, abbinata a quei termini e inserita in quella posizione, genera tanti altri messaggi sottintesi, ad esempio:
- Le donne vere, stai bene attento e seguimi, hanno le curve!
- Le donne vere, e mo' guarda cosa vado a rivelarti, hanno le curve!
- Le donnne vere, mica quelle finte che stanno in tivù, hanno le curve!
- Le donne vere, quelle genuine e sincere e non ritoccate al Photoshop, hanno le curve!
- Le donne vere, e se lo neghi finisce che le prendi, hanno le curve!

C'è un tono quasi minaccioso, sicuramente polemico, che si pone su un piano di alterità /diversità / superiorità rispetto al banale sentire comune che idealizza la donna magra e disprezza la donna grassa - sto usando volutamente termini molto schietti e per niente politically correct, dal momento che non c'è nulla di politically correct nel giudizio estetico di massa.

In definitiva, quella virgola dà un enorme aiuto al testo (e al contesto) nel comunicare un forte desiderio di rivalsa: basta invertire la frase e otteniamo, più o meno, "le donne con le curve sono quelle vere". Esprime inoltre l'intenzione di far sentire sicure e legittimate le clienti che, comprensibilmente, si sentono escluse dal suddetto giudizio estetico di massa e quindi si vergognano di dover fare acquisti in un negozio per taglie forti (= per donne grasse, siluriamo anche qui il politically correct, grazie).

Insomma, dinanzi a un uso così brillante e creativo di una semplice virgola, si può anche perdonare la cesura fra soggetto e verbo e sorridere al pensiero che almeno una cliente ogni tanto si sia lasciata convincere dallo slogan e abbia pensato, tutta tronfia, "io sì che sono una vera donna!".

Kerosene nel cervello

Rivolgendomi idealmente alle "vittime" e agli estimatori di una certa nuova campagna pubblicitaria di una certa nota marca di jeans e abbigliamento, mi sono limitatata a pensare "poveretti voi che ancora abboccate a 'ste idiozie, ma andaste a lavorare in miniera invece di farvi ispirare da 'sti fighettini nullafacenti per strada".

Qualcun altro, per fortuna, ha fatto un'analisi un po' più argomentata (anche perché se tutti si limitassero ai miei "slanci emotivi", ne uscirebbe ben poco costrutto).
http://giovannacosenza.wordpress.com/2010/02/01/be-stupid/