mercoledì, luglio 08, 2015

Maggie



E io che con Schwarzenegger credevo di aver chiuso - dai tempi di Commando, più o meno.

Invece, arzillo sessantasettenne, quest'uomo se ne esce con un film, Maggie (in italiano divenuto Contagious - Epidemia mortale, santo cielo...), che improvvisamente me lo fa apparire maturo, interessante, sensibile, concentrato. Insomma: figo.

Ora, io non sono un'esperta di film sugli zombie. Non ho mai visto le pietre miliari del genere, men che meno una singola puntata di The Walking Dead (lo so, è una bestemmia, prima o poi riuscirò). Quando nei fumetti di supereroi c'è stata la moda zombie, qualche anno fa, ho saltato a piè pari tutte le storie che ne parlavano. Mi da persino fastidio che alcune siano state raccolte e ristampate nei volumoni allegati alla Gazzetta. Faccio fatica a guardare il videoclip di Thriller, con tutto che Michael Jackson era un ballerino mica da ridere. Gli zombie mi fanno schifo, punto.

Pur non essendo un'esperta, tuttavia, ci arrivo persino io a capire che lo zombie non è un mostro qualsiasi, bensì una metafora, una rappresentazione di qualcosa che spaventa l'essere umano, la regressione a uno stato animale, la fine della civiltà umana, con tanto di cannibalismo.

Ecco, in Maggie la metafora è un'altra. Si parla di malattia, di morte, della sua ineluttabilità.

Riciclo qualche riga che ho scritto sull'account Facebook del mio alter-ego Velma J. Starling: "Ieri sera ho visto questo film e non riesco a levarmelo dalla testa. È un pugno nello stomaco, suscita paura e a momenti ribrezzo. È una variazione straziante su un certo tipo di film di genere (l'apocalisse zombie). È la presenza invasiva di una colonna sonora terrorizzante e fastidiosa. È una telecamera mai perfettamente immobile, che ti comunica un senso costante di incertezza e di apprensione. È una sceneggiatura senza inutili infodump, rispettosa dello spettatore cui chiede la complicità nel capire tutto senza dovergli spiegare troppo. È un nuovo, struggente Schwarzenegger dopo tanti film picchiaduro. È il contesto delle zone rurali degli Stati Uniti (per l'esattezza il Kansas), con le loro bellezze e i loro limiti. È una gigantesca, aggressiva metafora del concetto di malattia in fase terminale, con il percorso del malato, della famiglia, degli amici, dell'ostinazione e della rassegnazione. E un finale meraviglioso che ti fa scoppiare a piangere come un bambino."

Nota a margine: brava Abigail Breslin nel ruolo di Maggie, ma ancor più brava Raeden Greer nel ruolo, pur marginale, della migliore amica Allie. All'inizio ti fa credere di essere, come dire, un po' blonde - poi, invece, ti lascia vedere quanto la situazione stia pesando anche su di lei.