lunedì, dicembre 31, 2007

2008, fatti avanti se hai coraggio

Vale per Capodanno quel che vale per Natale: non è una festa a cui sono granché legata e non mi interessa se passarla in un modo o in un altro. Certo trascorrere una sera con amici sarebbe bello, ma questo non c'entra col fatto se quella sera sia il 31 dicembre o no. E in questo caso, non la passo con amici perché ho un mezzo cerchio alla testa, un bel mal di pancia dovuto alle care vecchie ovaie impazzite, e tre morsi sanguinanti su un polpaccio, freschi freschi di disinfettante (la patonfa non ha gradito gli ultimi tentativi di darle una pulita al didietro).

Lo so che nel 2008 sono in arrivo nuovi momenti duri: gravi questioni di salute o di famiglia affliggono diverse persone a me molto care, e alcune conseguenze (pratiche ed emotive) della morte di mio padre sono in procinto di arrivare. Eppure mi sento stranamente pronta a fronteggiare con il giusto spirito gli eventi a venire. Spero di non cambiare idea e umore troppo presto.

Nei prossimi giorni, forse già domani, mi verrà voglia di fare bilanci e ideare buoni propositi. Ma per ora vado a rifugiarmi al calduccio sotto le coperte, facendomi coccolare dal Ghigo, stringendo al petto la lontra di peluche che "la mia fidanzata" mi ha regalato a Vancouver e immaginando così di stringere forte tutte le persone che amo, specialmente quelle che desidero proteggere con tutte le mie forze e fino all'ultimo respiro. Non sarà una passeggiata, ma il 2008 (e spero anche tanti anni ulteriori) lo passeremo fianco a fianco, insieme. Qualcosa varrà pure.

Paola sta andando avanti...

...con la stesura del suo nuovo romanzo.
Non so quanti dei miei amici/lettori controllino periodicamente i link ai blog qui nella colonna a destra, ma suggerirei caldamente una lettura regolare de Il rollio dell'anaconda, perché Paola Barbato sta inserendo post brevi ma interessanti sui lavori in corso del suo secondo libro, ed è sempre interessante uno sguardo sulle paturnie e sui piccoli accenni di vita quotidiana di una scrittrice/sceneggiatrice.

Restando più o meno in tema, vi segnalo anche che varrebbe la pena di leggere, su Diegozilla (ovvero il blog di Diego Cajelli), almeno tutti i post che recano le seguenti etichette: Cinema, Fumetti Recensioni, Racconti, Sceneggiature, Scrittura, Serie TV. C'è sempre qualche spunticino arguto.

domenica, dicembre 30, 2007

Quel caro, vecchio, affilato rasoio



A scanso di equivoci, no... non sto scrivendo un post sul film di Sweeney Todd. Ma visto che il collegamento è sorto spontaneo, perché non inserire un po' di colonna sonora?

Bene. Ora, tornando a noi, sto solo riesumando (in modo molto approssimativo) quella squisita nozione filosofica che è il rasoio di Occam. Mi è capitato di trovarla citata nell'introduzione di Massimo Polidoro a questo libro. Libro che ho acquistato non solo perché il tema mi interessa, ma anche per la presenza di un saggetto breve breve, a firma Umberto Eco (egli stesso medesimo unico e solo), che subito andata a leggere, rimandando a più tardi tutto il resto.

E scoprendo cosa?

Anzitutto, che è un contributo di sole tre pagine, per giunta riciclato da chissà dove e inserito con una pertinenza sì e no media per non dire scarsina... insomma giusto per poter scrivere "Umberto Eco" sulla cover del libro.

E poi che è un ottimo punto di partenza per analizzare il fenomeno del complottismo... anche se secondo me trascura una forte componente psicologica ed egocentrica del complottista medio ("se il mondo non mi ascolta, ovviamente non è perché io non abbia poi delle gran cose da dire, o perché il mondo a volte sia distratto o occupato a fare altro, visto che non esisto solo io sulla faccia delle terre emerse, ma perché quelli che dovrebbero ascoltarmi ce l'hanno tutti con me").

Va bè: questa era una digressione dovute a esperienze professionali.

Tornando nuovamente a noi, stavo parlando della prefazione al libro. Qui si parla appunto del rasoio di Occam, citandolo in quanto metodo filosofico per analizzare vari fenomeni. E in questa occasione, siccome il testo è evidentemente di stampo divulgativo e quindi parte dal sacrosanto presupposto che non tutti sappiano cosa è il rasoio di Occam, ne spiega il concetto basilare, così:

Nel 1300 un filosofo inglese, Guglielmo di Occam, suggerì un principio che da allora è alla base del metodo scientifico e che ha preso il suo nome. Il "rasoio di Occam", così si chiama infatti questo principio, dice che quando esistono spiegazioni alternative per uno stesso fenomeno, l'unica vera è con ogni probabilità la più semplice, quella cioè che richiede il minor numero di ipotesi successive.

Sulla Garzantina della Filosofia, lo stesso principio viene rapidamente descritto così:

non si devono postulare entità inutili, nel senso che sono da evitare le ipotesi complesse, in particolare quelle non suffragate dall'esperienza.

E infine, su Wikipedia, al rasoio di Occam vengono dedicate (fra le altre) queste righe:

Tale principio, alla base del pensiero scientifico moderno, nella sua forma più semplice suggerisce l'inutilità di formulare più assunzioni di quelle strettamente necessarie per spiegare un dato fenomeno: il rasoio di Occam impone di scegliere, tra le molteplici cause, quella che spiega in modo più semplice l'evento.

La formula, utilizzata spesso in ambito investigativo e - nel moderno gergo tecnico – di problem solving, recita:

Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem.
Pluralitas non est ponenda sine necessitate.
Frustra fit per plura quod fieri potest per pauciora.

Ovvero:

Non aggiungere elementi quando non servono.
Non imporre pluralità quando non serve.
È inutile fare con più quanto si può fare con meno.

In altri termini, non vi è motivo alcuno per complicare ciò che è semplice. All'interno di un ragionamento o di una dimostrazione vanno invece ricercate la semplicità e la sinteticità. Tra le varie spiegazioni possibili di un evento, è quella più semplice che ha maggiori possibilità di essere vera (anche in base a un altro principio, elementare, di economia di pensiero: se si può spiegare un dato fenomeno senza supporre l'esistenza di qualche ente, è corretto farlo, in quanto è ragionevole scegliere, tra varie soluzioni, la più semplice e plausibile).

Il rasoio di Occam trova spesso luogo in discussioni eminentemente dotte e scientifiche (esempio tipico, nel campo della fisica e della scienza in generale).

Un esempio a caso (ma molto chiaro) di uso del rasoio di Occam, tanto per curiosità, potete trovarlo qui.

Il rasoio di Occam, oltre ad essere parente strettissimo del principio di economia caro alla semiotica interpretativa (che è la teoria semiotica nel cui paiolo io sono caduta "da piccola"), è anche il metodo filosofico preferito di mia madre, sebbene lei lo eserciti in modo molto intuitivo e non sempre pienamente consapevole, specie nelle nostre dotte discussioni di filosofia etica (ovvero "attinente la sfera dei rapporti fra esseri umani"). Quando ad esempio le racconto certe azioni di Persona X, cercando peraltro di mantenere un atteggiamento tutto sommato obiettivo e distaccato nonostante mi si rivoltino le viscere, e a volte cercando persino qualche spiegazione o qualche attenutante, lei taglia la testa al toro (col rasoio, per l'appunto) e sentenzia: "è un cretino". E guai a contraddire la mamma.

In linea di massima, anche io sono una fan del rasoio di Occam. Le complicazioni inutili mi irritano da un punto di vista sia intellettuale che emotivo, e con esse anche (a maggior ragione) le loro degenerazioni sociali, psicologiche, economiche e politiche.

Devo però ammettere che, quando lo applico alle mie personalissime riflessioni di filosofia etica, il rasoio di Occam è pericoloso. Probabilmente, in realtà ha due lame, e se la prima mi è utilissima a sfrondare rametti e ramoscelli inutili, con la seconda rischio in continuazione di tagliarmi. Tornando all'esempio di cui sopra, in effetti le sentenze della mamma spesso forniscono un quadro molto limitato delle cose. Persona X ne ha fatte di cotte e di crude, ma, come dire... tecnicamente non è un cretino. Liquidare dinamiche ipercomplesse, in quanto attinenti a sfere sovrapposte quali quella psicologica, etica, intellettuale, sentimentale, emotiva e chissà che altro, significa probabilmente aver sfrondato troppo.

E se una persona sfronda troppo quando sta riflettendo non su altri, ma su se stessa in rapporto agli altri, ecco che, nel momento in cui usa avventatamente il rasoio liquidando in poche parole tutta una serie di propri atteggiamenti e sentimenti, si taglia.

A volte con ragione, a volte no. Difficile distinguere.

Risultato: ho usato (più o meno consapevolmente) il rasoio di Occam tutta la vita, e proprio ora che avrei bisogno di riflettere con lucidità, profondità e chiarezza su una complicata serie di questioni attinenti la "mia" filosofia etica, mi ritrovo a dubitare del suo utilizzo perché (A) mi ci taglio, e (B) non sono certa di meritarmi sempre quelle ferite. Il che, per una dichiarata meritocratica/colpevolista come me, è un bel problema.

[Inciso: a volte sì, per carità, me le merito eccome.]

Avrei numerosissimi elementi su cui ragionare: eventi, sentimenti, spunti, ricordi... "pacchetti mentali" che si inseguono e si rincorrono gli uni con gli altri, modificando le loro intersezioni di volta in volta. Già sono troppi e complicati, poi quando ci si inseriscono delle rasoiate a vanvera, figuriamoci che bei risultati.

Quindi, programmino per l'avvenire: scrivere sul blog, quando mi vengono in mente, questi "pacchetti" nella speranza (A) che scrivendoli mi si chiariscano un po', e (B) di recuperare un uso consapevole e curato del rasoio, che mi eviti non tutte le ferite autoinflitte, ma almeno quelle immeritate (posto che ve ne siano). E ovviamente che contribuisca allo sviluppo di un "pensiero emotivo" coerente, in grado di migliorare la qualità della vita mia e degli altri, quando si tratta di relazioni interpersonali e affini.

Il tutto, giusto per chiarezza, ha la sua più remota origine in questo post che già in un'altra occasione avevo ripescato e che mi rendo conto essere un punto fermo (o quantomeno non troppo traballante) intorno al quale girano un sacco di cose.

Chi volesse catalogare l'intera questione come "insieme di masturbazioni mentali", ha ovviamente il diritto di farlo, ma sapendo che sta forse esercitando un uso del rasoio di Occam analogo a quello della mia mamma. A ciascuno la propria ricerca etica.

mercoledì, dicembre 26, 2007

Rotta di collisione

C'è questa Persona X che mi sta tanto, ma proprio tanto sui coglioni. Una di quelle persone a cui, dal momento che è d'uso scambiarsi cordiali auguri in questo periodo dell'anno, augurerei cordialmente di rimanere bloccata con la macchina su un passaggio a livello della linea ad alta velocità quando passa il Pendolino.

Poi c'è Persona Y che è tutto il contrario. Una di quelle persone a cui invece, tanto per farla breve, augurerei tutta la felicità di 'sto mondo, e se possibile anche di altri mondi paralleli nel Multiverso.

Poi c'è una connessione a corrente alternata fra Persona X e Persona Y, connessione tale per cui a me potrebbe capitare di imbattermi in Persona X per tramite di Persona Y.

Non fosse che Persona Y sta bene attenta acciocché questo non accada.

E qui tanto per cominciare ci casca la Domanda con la D maiuscola: ma Persona Y si arma di cotanta cautela per tutelare me? per tutelare Persona X? per tutelare se stessa dai potenziali focolai d'incendio che si svilupperebbero in caso di incontro fra Persona X e me?

Qualunque sia la risposta, non è che saperla cambierebbe granché. Diciamo che la domanda me la ponevo per pura curiosità, ma possiamo tranquillamente metterla da parte.

Tornando a monte, dicevamo: Persona Y sta bene attenta acciocché non vi siano incontri fra Persona X e me.

Quindi, lasciatami alle spalle la Domanda, posso proseguire con il Dubbio (con la D maiuscola pure lui): ma chiunque o qualunque cosa Persona Y stia cercando di tutelare, non crederà mica di poterlo fare da qui all'eternità?

Sarà mai possibile pensare di poter tenere lontane due persone in modo artificioso, oltretutto sapendo che possono comunque capitare incontri casuali, visto che non è che una viva in Sudafrica e l'altra in Alaska?

Adesso forse io la faccio troppo facile, ma potrebbe essere meglio fare un bel discorsino a me e/o a Persona X della serie: lo so che vi state sui coglioni ma per piacere siate persone civili, non rompeteli a me i coglioni visto che ho già le mie grane a cui pensare, e se capita che vi incontriate in mia presenza non voglio sentir volare una mosca.

Il tutto, considerando anche che c'è pure una Persona Z, molto più giovane, che davvero non c'entra un beato fagiolo con tutta 'sta storia; e una collisione violenta fra me e Persona X non sarebbe certo un bello spettacolo ai suoi occhi. Quindi, tutelare Persona Z potrebbe essere quantomeno cosa dovuta.

Per carità, impedire la collisione fra Persona X e me è un'ottimo modo per tutelare Persona Z, non ne dubito. Ma torna il Dubbio: sarà mica possibile tenerci su binari separati per tutta la vita? La rotta di collisione esiste, è nel destino, è statistico, sono sicura che esiste, non la si può eludere per sempre.

Forse Persona Y non ci prova nemmeno, a farmi il bel discorsino, perché ha sentito quel sordo brontolio di sottofondo (roba che Zanna Bianca mi fa un baffo) che mi esce dalla gola ogni volta che intravedo Persona X.

Vero. Verissimo. Colpa mia. Potevo/dovevo sforzarmi di agire diversamente. Riconosco il mio torto.

Ma detto questo, santa pazienza, non è che io sia così idiota da non ascoltare Persona Y se mi dice che vorrebbe da me un atteggiamento diverso, no?!?

...no?

Bene. Primo multi-fioretto per l'anno nuovo.

Prometto solennemente di comportarmi bene in presenza di Persona X.
Prometto di non toglierle più il saluto.
Prometto di non ringhiare.
Prometto di non morderla nell'aorta.
Prometto di non sputarle sugli occhiali.
Prometto di non far scrocchiare le nocche.
Prometto di non sabotare la sua macchina nei pressi dei passaggi a livello.
Prometto di trovare, all'occorrenza, argomenti di conversazione (e QUESTO per me non è un fioretto, è un sacrificio umano anzi felino).
Prometto di fare persino la simpatica e la brillante se alla presenza di Persona X si associa la presenza di Persona Z.

Così, magari prima o poi con Persona Y riusciamo a metterci d'accordo, e l'inevitabile collisione fra me e Persona X si risolverà non con un incidente mortale, ma con una constatazione amichevole di sinistro, quelle in cui te la cavi con il fanalino di coda scheggiato e un'ipocrita stretta di mano.

E ora che sto così brillantemente asservendo il mio istinto (e in parte la mia coscienza) a un bene superiore, vado a cercarmi in rete qualche stronzo a cui poter virtualmente spaccare la faccia senza dovermi fare degli scrupoli.

Platone e il mito della caverna

Post della serie "no comment", ovvero mi limito - senza aggiungere nulla di mio - a trascrivere uno dei brani filosofici più famosi della storia. Perché ogni tanto un bel ripasso ci vuole.

Platone, “Il mito della caverna” (Repubblica, Libro VII)

- In séguito, continuai, paragona la nostra natura, per ciò che riguarda educazione e mancanza di educazione, a un’immagine come questa. Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna, pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, sì da dover restare fermi e da poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d’un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa pensa di vedere costruito un muricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini.

- Vedo, rispose.

- Immagina di vedere uomini che portano lungo il muricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine, e statue e altre figure di pietra e di legno, in qualunque modo lavorate; e, come è naturale, alcuni portatori parlano, altri tacciono.

- Strana immagine è la tua, disse, e strani sono quei prigionieri.

- Somigliano a noi, risposi; credi che tali persone possano vedere, anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro di fronte?

- E come possono, replicò, se sono costretti a tenere immobile il capo per tutta la vita?

- E per gli oggetti trasportati non è lo stesso?

- Sicuramente.

- Se quei prigionieri potessero conversare tra loro, non credi che penserebbero di chiamare oggetti reali le loro visioni?

- Per forza.

- E se la prigione avesse pure un’eco dalla parete di fronte? Ogni volta che uno dei passanti facesse sentire la sua voce, credi che la giudicherebbero diversa da quella dell’ombra che passa?

- Io no, per Zeus!, rispose.

- Per tali persone insomma, feci io, la verità non può essere altro che le ombre degli oggetti artificiali.

- Per forza, ammise.

- Esamina ora, ripresi, come potrebbero sciogliersi dalle catene e guarire dall’incoscienza. Ammetti che capitasse loro naturalmente un caso come questo: che uno fosse sciolto, costretto improvvisamente ad alzarsi, a girare attorno il capo, a camminare e levare lo sguardo alla luce; e che così facendo provasse dolore e il barbaglio lo rendesse incapace di scorgere quegli oggetti di cui prima vedeva le ombre. Che cosa credi che risponderebbe, se gli si dicesse che prima vedeva vacuità prive di senso, ma che ora, essendo più vicino a ciò che è ed essendo rivolto verso oggetti aventi più essere, può vedere meglio? e se, mostrandogli anche ciascuno degli oggetti che passano, gli si domandasse e lo si costringesse a rispondere che cosa è? Non credi che rimarrebbe dubbioso e giudicherebbe più vere le cose che vedeva prima di quelle che gli fossero mostrate adesso?

- Certo, rispose.

- E se lo si costringesse a guardare la luce stessa, non sentirebbe male agli occhi e non fuggirebbe volgendosi verso gli oggetti di cui può sostenere la vista? e non li giudicherebbe realmente più chiari di quelli che gli fossero mostrati?

- E’ così, rispose.

- Se poi, continuai, lo si trascinasse via di lì a forza, su per l’ascesa scabra ed erta, e non lo si lasciasse prima di averlo tratto alla luce del sole, non ne soffrirebbe e non s’irriterebbe di essere trascinato? E, giunto alla luce, essendo i suoi occhi abbagliati, non potrebbe vedere nemmeno una delle cose che ora sono dette vere.

- Non potrebbe, certo, rispose, almeno all’improvviso.

- Dovrebbe, credo, abituarvici, se vuole vedere il mondo superiore. E prima osserverà, molto facilmente, le ombre e poi le immagini degli esseri umani e degli altri oggetti nei loro riflessi nell’acqua, e infine gli oggetti stessi; da questi poi, volgendo lo sguardo alla luce delle stelle e della luna, potrà contemplare di notte i corpi celesti e il cielo stesso più facilmente che durante il giorno il sole e la luce del sole.

- Come no?

- Alla fine, credo, potrà osservare e contemplare quale è veramente il sole, non le sue immagini nelle acque o su altra superficie, ma il sole in se stesso, nella regione che gli è propria.

- Per forza, disse.

- Dopo di che, parlando del sole, potrebbe già concludere che è esso a produrre le stagioni e gli anni e a governare tutte le cose del mondo visibile, e ad essere causa, in certo modo, di tutto quello che egli e i suoi compagni vedevano.

- E’ chiaro, rispose, che con simili esperienze concluderà così.

- E ricordandosi della sua prima dimora e della sapienza che aveva colà e di quei suoi compagni di prigionia, non credi che si sentirebbe felice del mutamento e proverebbe pietà per loro?

- Certo.

- Quanto agli onori ed elogi che eventualmente si scambiavano allora, e ai premi riservati a chi fosse più acuto nell’osservare gli oggetti che passavano e più rammentasse quanti ne solevano sfilare prima e poi e insieme, indovinandone perciò il successivo, credi che li ambirebbe e che invidierebbe quelli che tra i prigionieri avessero onori e potenza? o che si troverebbe nella condizione detta da Omero e preferirebbe "altrui per salario servir da contadino, uomo sia pur senza sostanza", e patire di tutto piuttosto che avere quelle opinioni e vivere in quel modo?

- Così penso anch’io, rispose; accetterebbe di patire di tutto piuttosto che vivere in quel modo.

- Rifletti ora anche su quest’altro punto, feci io. Se il nostro uomo ridiscendesse e si rimettesse a sedere, sul medesimo sedile, non avrebbe gli occhi pieni di tenebra, venendo all’improvviso dal sole?

- Sì, certo, rispose.

- E se dovesse discernere nuovamente quelle ombre e contendere con coloro che sono rimasti sempre prigionieri, nel periodo in cui ha la vista offuscata, prima che gli occhi tornino allo stato normale? e se questo periodo in cui rifà l’abitudine fosse piuttosto lungo? Non sarebbe egli allora oggetto di riso? e non si direbbe di lui che dalla sua ascesa torna con gli occhi rovinati e che non vale neppure la pena di tentare di andar sù? E chi prendesse a sciogliere e a condurre sù quei prigionieri, forse che non l’ucciderebbero, se potessero averlo tra le mani e ammazzarlo?

- Certamente, rispose.

martedì, dicembre 25, 2007

Il quartetto della vita

Titolo melodrammatico per un post, lo so.

All'inizio volevo solo inserire questo video (vedi più sotto) da Youtube, perché l'altro giorno ho visto a teatro una versione in italiano del musical Jekyll & Hyde (non male... però poteva essere meglio... però non male... però poteva essere meglio) e mi sono ricordata di quanto mi piace il breve quartetto che prende le mosse più o meno dal minuto 4:45 del video.

Intendevo: quanto mi piace musicalmente (al di là del fatto che sembra un esercizio di stile basato su armonie fin troppo scontate... ma mi piace comunque un sacco).

Poi, mentre lo riguardavo, mi sono resa conto che c'è un altro motivo per cui mi piace. E' un momento drammatico della trama, in cui quattro dei personaggi principali (legati gli uni agli altri da grandi affetti) si trovano a vivere conflitti e paure, talvolta anche a litigare e far presenti gli uni agli altri un insieme di torti e disagi, sebbene preferirebbero di gran lunga non farlo.

Lo fanno perché non hanno scelta.
Perché una donna innamorata non può non difendere in ogni modo il suo uomo.
Perché un uomo con un grande ideale non può non seguirlo fino in fondo.
Perché un padre non può non mettere in guardia una figlia da un possibile pericolo.
Perché un buon amico non può non far notare al proprio amico i suoi torti.

Non è forse il genere di situazione in cui prima o poi ci ritroviamo tutti...?

lunedì, dicembre 24, 2007

Vigilia assonnata e miagolata

Non lo ricorderò esattamente come un Natale bello. Non che la cosa mi sconvolga, visto che al Natale non sono affezionata in modo particolare, però di certo la differenza rispetto agli altri anni si sente (e si sentirà anche a Capodanno).

Non sono mai stata abituata a fare gozzovigliamenti o cenoni per la vigilia, quindi trovo naturale stare tranquilla a casa, accoccolata con il Ghigo sul divano. Mi sento un po' assonnata, probabilmente perché nelle ultime notti ho dormito poco e male. Preoccupazioni? Certo, figuriamoci. Ma su quante e quali scriverò un'altra volta. Qui mi limito ad annotare il devastante effetto psicologico che si subisce quando si ha un animale domestico ammalato.

Ebbene sì, la patonfa (alias gattona di otto chili che prima o poi meriterà un post tutto per lei) ha di nuovo la cistite. Anche sorvolando sui sintomi e sulle conseguenze pratiche, nonché sulla casa puzzolente e devastata, e pensando solo all'impatto emotivo, ce n'è più che abbastanza. L'atteggiamento immalinconito, le orecchie basse, il lamento greve "mao... mao... mao...", e soprattutto lo sguardo depresso e disperato (o almeno, così noi lo interpretiamo, probabilmente antropomorfizzando un po' troppo) che ti fa venire voglia di passare ogni minuto con lei coccolandola e dicendole che andrà tutto bene.

[Inciso: questa è una sensazione che al momento non provo solo nei confronti della patonfa ma anche di alcune persone. Troppe.]

Poi ti degni di razionalizzare e dici a te stessa: okay, dal veterinario ci siamo andati, la puntura di antibiotici l'abbiamo fatta, le pastiglie le abbiamo prese, il detergente per il sederone arrossato pure. Questione di dieci giorni e dovrebbe andare tutto a posto.

Ma poi senti ancora quel "mao... mao... mao..." e ricominci a deglutire a fatica.

«Dài, patonfa... non fare così... dài che fra qualche giorno sei guarita...»

Ma si potrà stare così per un gatto? Si potrà?!?!?
Certo che sì, ovviamente. Istinto materno frustrato? Rapporto simbiotico? Amore viscerale per la comunicazione silenziosa eppure efficace che i gatti sanno instaurare? Ma che ne so.

"Mao... mao... mao..."

Basta, non ce la faccio più. Mi chiudo in camera e vado a letto, e con questa vigilia la schiantiamo. Amen!

lunedì, dicembre 10, 2007

Fuggite

Questo post lo scrivo perché penso veramente di doverlo scrivere. È una specie di appello, o meglio di sincerissimo consiglio, a chi prima o poi nella vita dovesse vivere (più o meno direttamente) un’esperienza analoga a quella che ho vissuto io la settimana scorsa. Diciamo che ho imparato qualcosa di apparentemente scontato ma in realtà non troppo. O comunque non mi era abbastanza chiaro finché non l’ho vissuto sulla mia pelle.

Allora… a titolo di premessa vi spiego che, all’atto pratico, il problema medico di mio padre nei suoi ultimi giorni è stato una insufficienza respiratoria. Il polmone sinistro era ormai invaso da un tumore cosiddetto “a piccole cellule”, mentre il destro soffriva per un banale malanno di stagione (tipo bronchite) che ne pregiudicava la funzionalità (oltre ad essere stato privato di un pezzetto di tessuto polmonare, vent’anni fa, per via di un altro tumore che fortunatamente era stato operabile). Ad essere compromessa era quindi l’intera capacità polmonare: lui inspirava, ma di aria non poteva materialmente assumerne più di un certo quantitativo. Sempre meno, di giorno in giorno.

Circa tre settimane fa, mio padre era stato in ospedale una decina di giorni, prevalentemente per sottoporsi a un certo numero di esami che alla fine avevano condotto alla diagnosi del tumore. Di lì a poco, terminati gli esami, venne dimesso e io lo riportai a casa. E, fino alla settimana scorsa, a casa era rimasto, fra alti e bassi. Mancavano dei responsi medici, quindi, non potendo ancora mettere in atto alcun tipo di cura, non aveva senso tenerlo prigioniero in ospedale. Certo un paio di volte eravamo andati al pronto soccorso perché lui sentiva dolore al petto (dolore dovuto a un versamento pleurico, a sua volta dovuto al tumore), ma non lo avevano ricoverato.

Venerdì e sabato scorsi, aveva chiamato dei medici a casa perché continuava a sentirsi male, ma in entrambi i casi aveva rimediato solo la prescrizione di un paio di antibiotici e di cortisone. Domenica mattina, infine, si era fatto portare nuovamente al pronto soccorso, dove era finalmente stato ricoverato per un edema (dovuto al tumore) che aveva causato un’infiltrazione di acqua nel polmone sinistro.

Per aiutarlo nella respirazione (compromessa dall’infiltrazione), gli hanno applicato la mascherina dell’ossigeno, e da quel momento in poi, non l’ha praticamente più tolta.

Lunedì, mia sorella ed io avevamo un appuntamento a Milano con un famoso oncologo, per sottoporgli la situazione. Siamo tornate con alcune indicazioni utili, che però presupponevano una condizione fisica complessiva non troppo compromessa, in modo da poter iniziare una chemioterapia di un certo tipo.

Purtroppo, ormai la condizione fisica complessiva era compromessa eccome. Quando io mi trovai a riferire alla dottoressa dell’ospedale il parere dell’oncologo milanese, lei mi spiegò che eravamo fuori tempo massimo: l’insufficienza respiratoria era ormai troppo grave e la prognosi era di qualche giorno appena. Non c’era più niente da fare.

“Più niente da fare”, pensavo io, “tranne che impedirgli di soffrire”.

Errore.

Da lunedì a mercoledì sera, l’insufficienza respiratoria peggiorava di ora in ora. Martedì mattina, con un drenaggio, gli avevano tolto un paio di litri d’acqua e mucose dal polmone sinistro. Mio padre ansimava ed era terrorizzato dal continuo senso di soffocamento. I valori di ossigeno nel sangue calavano, ma l’organismo si “abituava” lentamente a questo calo e quindi sembrava non cedere mai del tutto. A questo si aggiungeva una serie di dolori alla schiena e alle spalle, dovuti alla necessità di stare continuamente seduto (quasi mai sdraiato), perché da seduto respirava un pochino meglio, mentre da sdraiato soffocava e basta.

In tutto questo, mio padre era perfettamente lucido e consapevole del suo stato, tanto da chiedere che venisse il cappellano dell’ospedale per concedergli il sacramento dell’estrema unzione.

Provato dall’assenza di aria, riusciva a dire pochissime parole alla volta. Per indicare se aveva bisogno di essere spostato o aiutato in qualche cosa, si esprimeva a gesti. Quando si sforzava di parlare, era per supplicarci di lasciarlo morire. Ogni sua parola era un macigno che non riesco a dimenticare.

“Voi dovete trovare una soluzione estrema. Io non ce la faccio più. Lasciatemi andare”.

“Il mio amico XY l’aveva detto… quando questa malattia ti colpisce una seconda volta, non te la cavi.”

“I medici mi stanno tormentando. Ma perché? Io sono irrecuperabile, devono lasciarmi andare.”

“Non riesco a respirare… e non riesco a smettere di respirare. Nemmeno il Signore mi vuole.”

Già, il Signore. Perché mio padre era molto credente. Eppure, davanti a una sofferenza così atroce, voleva che lo aiutassimo a morire. Finché l’eutanasia la invoco io, che di fede ne ho ben poca (il che mi causa non poche angosce) e davanti al concetto di vita in quanto tale metto sempre quello di qualità della vita, è un conto. Ma se uno come mio padre (un uomo sempre molto coerente, iper-responsabile, dotato di profonde convinzioni, mai un cedimento, mai un’esitazione) supplica di essere lasciato morire, allora vuol dire che veramente non ce la fa più.

A un certo punto si è rifiutato di prendere altre medicine (gocce, pillole) e di mangiare. Ci dava a intendere che il motivo fosse la difficoltà a deglutire, ma non era vero: voleva solo accelerare i tempi. Lo so perché a un certo punto mi ha chiesto di fargli avere un certo calmante, per cercare di dormire.
Ho obiettato: “Ma quella che mi chiedi è una pastiglia, nemmeno piccola. Io te la porto, ma tu poi ce la fai a mandarla giù?”
E lui ha annuito con forza, e con un’espressione che significava “oh, figurati, ce la faccio eccome”.

Quindi non prendeva altre pastiglie e non mangiava perché non voleva.

Perché nessuno lo lasciava andare.

E perché nessuno gli permetteva di soffrire di meno.

Gli davano un po’ di morfina ogni tanto, non importa quanto insistessimo. Più di una volta io stessa ho detto ai medici “fatelo dormire, mandatelo in coma, fate quello che vi pare, basta che non soffra in quel modo!”

Niente da fare. Quando un paziente è in condizioni tanto critiche (e questa è la mia scoperta dell’acqua calda, diciamo ciò che quantomeno ho appreso con chiarezza in quella circostanza), gli viene assegnato un cosiddetto “piano morfina” che determina quanta gliene deve essere data al giorno, e con quale periodicità. Più di quella, nisba.

Perché?

Perché la morfina non si limita a far dormire la persona, ma contribuisce pesantemente ad accelerare la fine. Di conseguenza, l’utilizzo della morfina sfocia facilmente nell’eutanasia, e pertanto medici e infermieri sono spesso reticenti ad utilizzarla più di un tanto, non solo per ragioni legali ma anche etiche e religiose.

Ma – ci spiegava una dottoressa meno reticente delle altre – se uno insiste a sfinimento, chiama l’infermiera duecento volte al giorno, continua a far presente che il paziente soffre le pene dell’inferno, e insomma si trasforma in un insopportabile martello umano, prima o poi gli danno retta e aumentano le dosi.

Peccato che questa cosa noi (mia sorella ed io) l’abbiamo appresa, in questi termini così chiari e pratici, solo mercoledì pomeriggio. Io avevo in programma di andare in ospedale a dare il cambio a mia madre un po’ prima di mezzanotte ed ero determinata a trascorrere la notte dando battaglia a tutti gli infermieri del piano e rompendo loro le scatole peggio di un martello pneumatico.

Ma verso le otto, mia madre mi ha telefonato dicendo che secondo lei mio padre stava molto peggio di prima, che le cose stavano precipitando. Sono corsa in ospedale e ho trovato mia madre che teneva la mano a mio padre, il quale ansimava vistosamente ma sempre più lentamente, senza più forze, abbandonato sul letto con gli occhi chiusi.

E si era tolto da solo la maschera dell’ossigeno.

Lo aveva fatto per una sorta di riflesso condizionato? Perché tanto, ormai, maschera o non maschera, sapeva di essere alla fine?

Oppure lo aveva fatto quando ancora la maschera poteva fare una differenza, perché aveva deciso di lasciarsi morire, perché non sopportava più quella sofferenza infinita, perché nessuno gli permetteva di andarsene?

Così, cinque minuti dopo il mio arrivo, mio padre ha smesso di respirare e di soffrire, sotto i miei occhi, mentre lo tenevo per mano.

Io non rimpiango quei tre o quattro mesi di vita in meno, quelli che forse il tumore ci avrebbe concesso nel caso avesse risposto alla chemioterapia. Io maledico quei tre giorni in più, tre giorni completamente inutili in cui tutto ciò che mio padre ha fatto, minuto – dopo – minuto – dopo – minuto, è stato sentire dolore, ansimare, e provare il terrore che prova una persona in punto di morte.

Tre maledetti giorni, tutti in questo modo. Tre interi giorni di agonia.

E in fondo, rispetto ad altri malati, potrei anche dire solo tre giorni, potrei pensare che tutto sommato non sono stati trenta o trecento, ma solo tre.

Resta il fatto che, per come la vedo io, nessun essere umano dovrebbe essere condannato a una tortura simile. Ogni essere umano dovrebbe avere quantomeno il diritto – una volta saputo di essere in fase terminale e di avere comunque pochi giorni dinanzi a sé – di scegliere se abbreviare le sue sofferenze.

Ma spesso questo diritto viene negato. E in Italia viene particolarmente negato, perché, probabilmente a causa di un retaggio culturale e ideologico di matrice cristiana (cosa che dico senza intento polemico ma semplicemente come dato di fatto), l’intero settore della medicina del dolore è decenni indietro, rispetto ad altri paesi del mondo.

Insomma eccolo, il consiglio, per banale che sia, di cui volevo rendervi partecipi. Se mai vi dovesse capitare di avere un amico o un familiare in condizioni simili… se già sapete che non può cavarsela… se avete la certezza che è destinato a morire presto… se egli stesso è consapevole di ciò che lo attende e vuole accelerare i tempi… portatelo via da qui. Portatelo via, subito! Portatelo in Svizzera, in Olanda, negli Stati Uniti, portatelo dove vi pare ma non lasciatelo prigioniero di un sistema sanitario dove sarebbe condannato a soffrire pene infernali prima di potersene andare. Scappate! Per amor di Dio, fuggite, fuggite finché potete, finché la persona è in grado di viaggiare o di essere trasportata. Non lasciatevi fermare dal timore di allontanarlo dalla famiglia e dagli amici, non lasciatevi bloccare da niente e da nessuno. Fuggite e portatelo via, prima che sia troppo tardi.

L’ultimo giorno, mio padre comunicava con noi per iscritto, perché ansimava troppo per parlare. Una delle ultime righe che ha scritto potete vederla qui sotto. L’ho scansionata, invece che limitarmi a trascriverla, per farvela vedere proprio com’è, scritta di suo pugno.


"Lascino decidere a me".

Se mai dovesse ricapitarmi di trovarmi in una situazione analoga, giuro che farò qualsiasi cosa in mio potere per impedire che altre persone a me care vivano un calvario simile. Devo arrivare a dire una cosa anche più brutale? Eccola: mi piacerebbe poter contare abbastanza su me stessa per avere il coraggio, se necessario, di entrare in ospedale armata e sparare un colpo in testa al malato. Ma so che, quasi certamente, un coraggio così estremo non lo avrei.

Però, la “fuga”, quella riuscirei a organizzarla. Un bel trasferimento all’estero. Quello non me lo toglie più nessuno, cascasse il mondo. E vale per qualsiasi persona, fra quelle che mi stanno intorno, fra i miei amici, fra gli amici degli amici, che possa mai avere bisogno di una cosa del genere. Laddove le mie possibilità, anche economiche (perché spesso è pure di questo che si tratta), me lo permetteranno, sono certa con tutta la forza del mondo di voler essere sempre in prima linea, senza mai mollare, per nessuna ragione.

Lo ripeto a chiunque legga questa pagina, ai lettori abituali e a quelli di passaggio, agli amici e agli sconosciuti. Io vi auguro che un’esperienza di questo tipo non vi capiti mai e poi mai, nemmeno al mio peggior nemico. Ma se dovesse capitarvi, non aspettate. Non perdete tempo. Non abbiate esitazioni. Non ponetevi dubbi o domande.

Muovetevi subito.
Andate via.
Fuggite.

giovedì, dicembre 06, 2007

So long, dad



La faccio breve perché non è il genere di cosa che uno ha voglia di scrivere, ma ci sono persone con cui mi tengo in contatto prevalentemente attraverso questo blog, e così posso risparmiare tempo ed energie piuttosto che contattarle una ad una.
Ieri sera, dopo quattro giorni di crescente sofferenza, è morto mio padre (a causa di una grave insufficienza respiratoria causata da un misto di tumore al polmone e bronchite).
Sono distrutta dall'evento in sé e dal senso di perdita e vuoto, ma sollevata al pensiero che quell'agonia sia terminata. E vagamente consolata dal fatto di essere stata presente, lì con lui, al momento del trapasso.
Ho intorno uno scudo umano, costituito da marito, familiari e amici fraterni, che mi sostiene come meglio nessuno potrebbe fare e a cui va la mia gratitudine più totale e infinita.
Ho alcune cose che mi piacerebbe scrivere, tra piccoli ricordi e grosse arrabbiature che mi sono venute negli ultimi giorni, ma ci penserò più avanti. Per adesso, si tratta di tenere duro e ricominciare.

sabato, dicembre 01, 2007

Settimane a rovescio

Ormai è la regola: nei giorni feriali metto insieme un'iradiddìo di cose, tutte diverse, alcune di lavoro altre no, alcune di famiglia altre no, ecc ecc, corro da una parte all'altra come una palla di gomma impazzita e spesso e volentieri arrivo a fine giornata riducendo ben poco di concreto (fatte salve le imprescindibili porzioni di tempo che passo con certe persone - quelle sono il miglior motivo del mondo per starci, al mondo).
Va da sé che mi ritrovo con un accumulo di lavoro spaventoso per il weekend, cosìcché il sabato e la domenica diventano le giornate "metodiche" della settimana. Due episodi di serie TV da adattare in due giorni (perché vanno consegnati il lunedì mattina!). Nelle mie ormai tradizionali tre fasi: traduci il copione, aggiusta indicazioni e siglette varie, procedi con l'adattamento vero e proprio.
La cosa sorprendente è che ci riesco, a farne uno al giorno. Anzi, se facessi tutto in fila senza staccare mai (cioè senza coccolare le micie, coccolare il marito, pranzare, cazzeggiare su internet, bloggare, accendere il MSN, prendere un tè, ecc), mi basterebbero, toh, andiamo per approssimazione... sei ore. Probabilmente meno.
Quindi?
Quindi, o sto diventando veramente brava a fare questo mestiere (che negli ultimi sei anni ho preso e mollato - non per mia scelta - più volte di quante riesca a ricordare), o tutto il contrario, ovvero sto tirando via. Ma... boh, non credo. Quando mi sembra che una battuta vada bene, non è che se la riprovo altre dieci volte ci riesca a vedere dettagli da cambiare o synch da rivedere. Continua a sembrarmi che vada bene.
Starò mica diventando brava...? °__°
Prima di crogiolarmi in questa idea, devo per forza aspettare il feedback del committente. Anzi, meglio ancora, aspettare che la serie tv vada in onda e controllare, parola per parola, se e cosa hanno cambiato dei miei copioni.
Ma se per caso fosse vero?
Significherebbe non solo lusingare il mio ego in maniera spropositata, ma anche sapere che all'occorrenza, e ovviamente in momenti più ordinati della vita in cui poter lavorare come i comuni mortali nei giorni dal lunedì al venerdì, posso avere una produttività molto alta... e questo, incrociando le dita, un giorno potrà avere ottime conseguenze.
Va bè... meglio smetterla di star qui, devo partire con la traduzione del primo copione. Però prima potrei anche prendere un tè. O potrei vedere se sul MSN c'è qualche amico. O potrei lavarmi i capelli. O potrei...