lunedì, dicembre 10, 2007

Fuggite

Questo post lo scrivo perché penso veramente di doverlo scrivere. È una specie di appello, o meglio di sincerissimo consiglio, a chi prima o poi nella vita dovesse vivere (più o meno direttamente) un’esperienza analoga a quella che ho vissuto io la settimana scorsa. Diciamo che ho imparato qualcosa di apparentemente scontato ma in realtà non troppo. O comunque non mi era abbastanza chiaro finché non l’ho vissuto sulla mia pelle.

Allora… a titolo di premessa vi spiego che, all’atto pratico, il problema medico di mio padre nei suoi ultimi giorni è stato una insufficienza respiratoria. Il polmone sinistro era ormai invaso da un tumore cosiddetto “a piccole cellule”, mentre il destro soffriva per un banale malanno di stagione (tipo bronchite) che ne pregiudicava la funzionalità (oltre ad essere stato privato di un pezzetto di tessuto polmonare, vent’anni fa, per via di un altro tumore che fortunatamente era stato operabile). Ad essere compromessa era quindi l’intera capacità polmonare: lui inspirava, ma di aria non poteva materialmente assumerne più di un certo quantitativo. Sempre meno, di giorno in giorno.

Circa tre settimane fa, mio padre era stato in ospedale una decina di giorni, prevalentemente per sottoporsi a un certo numero di esami che alla fine avevano condotto alla diagnosi del tumore. Di lì a poco, terminati gli esami, venne dimesso e io lo riportai a casa. E, fino alla settimana scorsa, a casa era rimasto, fra alti e bassi. Mancavano dei responsi medici, quindi, non potendo ancora mettere in atto alcun tipo di cura, non aveva senso tenerlo prigioniero in ospedale. Certo un paio di volte eravamo andati al pronto soccorso perché lui sentiva dolore al petto (dolore dovuto a un versamento pleurico, a sua volta dovuto al tumore), ma non lo avevano ricoverato.

Venerdì e sabato scorsi, aveva chiamato dei medici a casa perché continuava a sentirsi male, ma in entrambi i casi aveva rimediato solo la prescrizione di un paio di antibiotici e di cortisone. Domenica mattina, infine, si era fatto portare nuovamente al pronto soccorso, dove era finalmente stato ricoverato per un edema (dovuto al tumore) che aveva causato un’infiltrazione di acqua nel polmone sinistro.

Per aiutarlo nella respirazione (compromessa dall’infiltrazione), gli hanno applicato la mascherina dell’ossigeno, e da quel momento in poi, non l’ha praticamente più tolta.

Lunedì, mia sorella ed io avevamo un appuntamento a Milano con un famoso oncologo, per sottoporgli la situazione. Siamo tornate con alcune indicazioni utili, che però presupponevano una condizione fisica complessiva non troppo compromessa, in modo da poter iniziare una chemioterapia di un certo tipo.

Purtroppo, ormai la condizione fisica complessiva era compromessa eccome. Quando io mi trovai a riferire alla dottoressa dell’ospedale il parere dell’oncologo milanese, lei mi spiegò che eravamo fuori tempo massimo: l’insufficienza respiratoria era ormai troppo grave e la prognosi era di qualche giorno appena. Non c’era più niente da fare.

“Più niente da fare”, pensavo io, “tranne che impedirgli di soffrire”.

Errore.

Da lunedì a mercoledì sera, l’insufficienza respiratoria peggiorava di ora in ora. Martedì mattina, con un drenaggio, gli avevano tolto un paio di litri d’acqua e mucose dal polmone sinistro. Mio padre ansimava ed era terrorizzato dal continuo senso di soffocamento. I valori di ossigeno nel sangue calavano, ma l’organismo si “abituava” lentamente a questo calo e quindi sembrava non cedere mai del tutto. A questo si aggiungeva una serie di dolori alla schiena e alle spalle, dovuti alla necessità di stare continuamente seduto (quasi mai sdraiato), perché da seduto respirava un pochino meglio, mentre da sdraiato soffocava e basta.

In tutto questo, mio padre era perfettamente lucido e consapevole del suo stato, tanto da chiedere che venisse il cappellano dell’ospedale per concedergli il sacramento dell’estrema unzione.

Provato dall’assenza di aria, riusciva a dire pochissime parole alla volta. Per indicare se aveva bisogno di essere spostato o aiutato in qualche cosa, si esprimeva a gesti. Quando si sforzava di parlare, era per supplicarci di lasciarlo morire. Ogni sua parola era un macigno che non riesco a dimenticare.

“Voi dovete trovare una soluzione estrema. Io non ce la faccio più. Lasciatemi andare”.

“Il mio amico XY l’aveva detto… quando questa malattia ti colpisce una seconda volta, non te la cavi.”

“I medici mi stanno tormentando. Ma perché? Io sono irrecuperabile, devono lasciarmi andare.”

“Non riesco a respirare… e non riesco a smettere di respirare. Nemmeno il Signore mi vuole.”

Già, il Signore. Perché mio padre era molto credente. Eppure, davanti a una sofferenza così atroce, voleva che lo aiutassimo a morire. Finché l’eutanasia la invoco io, che di fede ne ho ben poca (il che mi causa non poche angosce) e davanti al concetto di vita in quanto tale metto sempre quello di qualità della vita, è un conto. Ma se uno come mio padre (un uomo sempre molto coerente, iper-responsabile, dotato di profonde convinzioni, mai un cedimento, mai un’esitazione) supplica di essere lasciato morire, allora vuol dire che veramente non ce la fa più.

A un certo punto si è rifiutato di prendere altre medicine (gocce, pillole) e di mangiare. Ci dava a intendere che il motivo fosse la difficoltà a deglutire, ma non era vero: voleva solo accelerare i tempi. Lo so perché a un certo punto mi ha chiesto di fargli avere un certo calmante, per cercare di dormire.
Ho obiettato: “Ma quella che mi chiedi è una pastiglia, nemmeno piccola. Io te la porto, ma tu poi ce la fai a mandarla giù?”
E lui ha annuito con forza, e con un’espressione che significava “oh, figurati, ce la faccio eccome”.

Quindi non prendeva altre pastiglie e non mangiava perché non voleva.

Perché nessuno lo lasciava andare.

E perché nessuno gli permetteva di soffrire di meno.

Gli davano un po’ di morfina ogni tanto, non importa quanto insistessimo. Più di una volta io stessa ho detto ai medici “fatelo dormire, mandatelo in coma, fate quello che vi pare, basta che non soffra in quel modo!”

Niente da fare. Quando un paziente è in condizioni tanto critiche (e questa è la mia scoperta dell’acqua calda, diciamo ciò che quantomeno ho appreso con chiarezza in quella circostanza), gli viene assegnato un cosiddetto “piano morfina” che determina quanta gliene deve essere data al giorno, e con quale periodicità. Più di quella, nisba.

Perché?

Perché la morfina non si limita a far dormire la persona, ma contribuisce pesantemente ad accelerare la fine. Di conseguenza, l’utilizzo della morfina sfocia facilmente nell’eutanasia, e pertanto medici e infermieri sono spesso reticenti ad utilizzarla più di un tanto, non solo per ragioni legali ma anche etiche e religiose.

Ma – ci spiegava una dottoressa meno reticente delle altre – se uno insiste a sfinimento, chiama l’infermiera duecento volte al giorno, continua a far presente che il paziente soffre le pene dell’inferno, e insomma si trasforma in un insopportabile martello umano, prima o poi gli danno retta e aumentano le dosi.

Peccato che questa cosa noi (mia sorella ed io) l’abbiamo appresa, in questi termini così chiari e pratici, solo mercoledì pomeriggio. Io avevo in programma di andare in ospedale a dare il cambio a mia madre un po’ prima di mezzanotte ed ero determinata a trascorrere la notte dando battaglia a tutti gli infermieri del piano e rompendo loro le scatole peggio di un martello pneumatico.

Ma verso le otto, mia madre mi ha telefonato dicendo che secondo lei mio padre stava molto peggio di prima, che le cose stavano precipitando. Sono corsa in ospedale e ho trovato mia madre che teneva la mano a mio padre, il quale ansimava vistosamente ma sempre più lentamente, senza più forze, abbandonato sul letto con gli occhi chiusi.

E si era tolto da solo la maschera dell’ossigeno.

Lo aveva fatto per una sorta di riflesso condizionato? Perché tanto, ormai, maschera o non maschera, sapeva di essere alla fine?

Oppure lo aveva fatto quando ancora la maschera poteva fare una differenza, perché aveva deciso di lasciarsi morire, perché non sopportava più quella sofferenza infinita, perché nessuno gli permetteva di andarsene?

Così, cinque minuti dopo il mio arrivo, mio padre ha smesso di respirare e di soffrire, sotto i miei occhi, mentre lo tenevo per mano.

Io non rimpiango quei tre o quattro mesi di vita in meno, quelli che forse il tumore ci avrebbe concesso nel caso avesse risposto alla chemioterapia. Io maledico quei tre giorni in più, tre giorni completamente inutili in cui tutto ciò che mio padre ha fatto, minuto – dopo – minuto – dopo – minuto, è stato sentire dolore, ansimare, e provare il terrore che prova una persona in punto di morte.

Tre maledetti giorni, tutti in questo modo. Tre interi giorni di agonia.

E in fondo, rispetto ad altri malati, potrei anche dire solo tre giorni, potrei pensare che tutto sommato non sono stati trenta o trecento, ma solo tre.

Resta il fatto che, per come la vedo io, nessun essere umano dovrebbe essere condannato a una tortura simile. Ogni essere umano dovrebbe avere quantomeno il diritto – una volta saputo di essere in fase terminale e di avere comunque pochi giorni dinanzi a sé – di scegliere se abbreviare le sue sofferenze.

Ma spesso questo diritto viene negato. E in Italia viene particolarmente negato, perché, probabilmente a causa di un retaggio culturale e ideologico di matrice cristiana (cosa che dico senza intento polemico ma semplicemente come dato di fatto), l’intero settore della medicina del dolore è decenni indietro, rispetto ad altri paesi del mondo.

Insomma eccolo, il consiglio, per banale che sia, di cui volevo rendervi partecipi. Se mai vi dovesse capitare di avere un amico o un familiare in condizioni simili… se già sapete che non può cavarsela… se avete la certezza che è destinato a morire presto… se egli stesso è consapevole di ciò che lo attende e vuole accelerare i tempi… portatelo via da qui. Portatelo via, subito! Portatelo in Svizzera, in Olanda, negli Stati Uniti, portatelo dove vi pare ma non lasciatelo prigioniero di un sistema sanitario dove sarebbe condannato a soffrire pene infernali prima di potersene andare. Scappate! Per amor di Dio, fuggite, fuggite finché potete, finché la persona è in grado di viaggiare o di essere trasportata. Non lasciatevi fermare dal timore di allontanarlo dalla famiglia e dagli amici, non lasciatevi bloccare da niente e da nessuno. Fuggite e portatelo via, prima che sia troppo tardi.

L’ultimo giorno, mio padre comunicava con noi per iscritto, perché ansimava troppo per parlare. Una delle ultime righe che ha scritto potete vederla qui sotto. L’ho scansionata, invece che limitarmi a trascriverla, per farvela vedere proprio com’è, scritta di suo pugno.


"Lascino decidere a me".

Se mai dovesse ricapitarmi di trovarmi in una situazione analoga, giuro che farò qualsiasi cosa in mio potere per impedire che altre persone a me care vivano un calvario simile. Devo arrivare a dire una cosa anche più brutale? Eccola: mi piacerebbe poter contare abbastanza su me stessa per avere il coraggio, se necessario, di entrare in ospedale armata e sparare un colpo in testa al malato. Ma so che, quasi certamente, un coraggio così estremo non lo avrei.

Però, la “fuga”, quella riuscirei a organizzarla. Un bel trasferimento all’estero. Quello non me lo toglie più nessuno, cascasse il mondo. E vale per qualsiasi persona, fra quelle che mi stanno intorno, fra i miei amici, fra gli amici degli amici, che possa mai avere bisogno di una cosa del genere. Laddove le mie possibilità, anche economiche (perché spesso è pure di questo che si tratta), me lo permetteranno, sono certa con tutta la forza del mondo di voler essere sempre in prima linea, senza mai mollare, per nessuna ragione.

Lo ripeto a chiunque legga questa pagina, ai lettori abituali e a quelli di passaggio, agli amici e agli sconosciuti. Io vi auguro che un’esperienza di questo tipo non vi capiti mai e poi mai, nemmeno al mio peggior nemico. Ma se dovesse capitarvi, non aspettate. Non perdete tempo. Non abbiate esitazioni. Non ponetevi dubbi o domande.

Muovetevi subito.
Andate via.
Fuggite.

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