Qualche giorno fa, al supermercato, ho incontrato una mia conoscente che, dopo mezzo secondo, ha portato la conversazione sul suo argomento preferito: la ricerca di lavoro. Praticamente una geremiade interminabile su quanto è difficile trovare lavoro, sui problemi del precariato, sulle continue ricerche, eccetera.
Il tutto sarebbe non solo comprensibile, ma anche più che condivisibile, se non provenisse da una persona che per "lavoro" intende rigorosamente non più di otto ore al giorno, con contratto a tempo indeterminato, in regola sotto ogni punto di vista e con uno stipendio più che ragionevole.
Tutte cose simpatiche e, in teoria, dovute.
Sì. Bella, la teoria.
Guardacaso però ci troviamo in uno stato che è sempre in crisi, in un'epoca in cui dalla sera alla mattina le aziende nascono e crollano (incluse quelle che hanno la sede nei palazzi che vengono buttati giù a suon di aerei), in un mondo nel quale le borse vanno su e giù senza un senso facendo apparire e scomparire miliardi dall'ora di pranzo all'ora di cena, con un ente previdenziale pubblico che dopo decenni di amministrazione alla cazzo di cane non sa come fare a tappare i suoi buchi, figuriamoci a pagare le pensioni per decenni, e via dicendo.
Insomma, più passa il tempo, più il mito di quei bei lavori che "ti sistemano per la vita" si rivela per quello che è: un mito. Una cosa che poteva esistere in passato, ma difficilmente in futuro.
Ma supponiamo anche che uno ci creda, che ci siano persone meno disilluse di me, che ci siano ancora delle possibilità per chi ambisce a quel genere di traguardo.
Mentre aspetti di trovarlo o di conquistarlo, quel tipo di lavoro, che fai?
Risposta: cerchi una soluzione provvisoria (o più di una) che ti consenta di sbarcare il lunario, farti un'esperienza, ottenere contatti utili, imparare cose nuove, investire su te stesso e sulla tua formazione, rimediare referenze e tutto il possibile immaginabile. Ma se devi ottenere tutto questo, non è che quando l'orologio segna le cinque del pomeriggio fai come Fantozzi e corri verso la porta. Se hai un lavoro da terminare, lo termini. Se ne hai uno da consegnare il mattino dopo e sei in ritardo, piuttosto fai la notte in bianco ma lo consegni. Oppure non lo consegni perché comunque non ce l'hai fatta, nonostante la notte in bianco, e in questo caso te ne assumi la responsabilità, concedendoti il diritto di spiegare onestamente quali e quanti ostacoli ti hanno impedito di consegnarlo.
Non mi blocchi in chiacchiere al supermercato dicendo che l'ultimo posto che hai provato non ti convinceva perché l'orario era un po' pesantino. "Ah, come ti invidio, tu che fai le cose che ti piacciono". Ma credi che "le cose che mi piacciono" non siano spesso e volentieri sottopagate? Ma credi che io lavori solo le otto canoniche ore giornaliere? Ma credi che non ci sia un prezzo da pagare, per avere scelto la libertà al posto del timbro del cartellino? Ma se io ti dico che stasera dopo cena sto a casa perché devo lavorare, tu devi tirarmi fuori quella faccia come se avessi bestemmiato?
Ci sono prezzi da pagare anche per avere scelto il timbro del cartellino al posto della libertà, nessun dubbio. Non è che ci sia una via giusta, e una sbagliata. Quello che però mi irrita è la pretesa a tutti i costi. Accampare i diritti senza affrontare i doveri. Dire sempre "voglio avere questo" e mai "voglio dare quest'altro".
Che bello sarebbe se ci ispirassimo tutti quanti, almeno una volta nella vita, a uno come Churchill. Uno che si presentava al Parlamento inglese dicendo "non ho nulla da offrire se non sangue, fatica, lacrime e sudore". Inutile sperare che uno dei nostri politici possa mai mettere in pratica questo genere di atteggiamento, ma qui il problema sta più a fondo. Sta nel fatto che, alla fine, i politici sono lo specchio del loro popolo.
Nessun commento:
Posta un commento