Oggi ho segnato la tacca delle undici ore di lavoro praticamente consecutive.
Me ne aspettano altre tre dopo cena (se va bene).
Domani, penso idem.
Mercoledì mattina, lavoro. Mercoledì pomeriggio, trasferta a Bologna, poi albergo, poi sveglia alle cinque del mattino, poi aereo, poi trasferta in Inghilterra.
Dormire come si deve, inizia a diventare pia illusione... -__-
Questo è il blog di Valentina Semprini. Parla di fumetti, musical, vita privata e altro. Quindi contiene chiacchiere, segnalazioni, immagini, video, riflessioni, sfoghi, recensioni... insomma, è un blog: che vi aspettavate? :-)
lunedì, aprile 28, 2008
sabato, aprile 26, 2008
Lezioncina da non dimenticare
E' ormai diverso tempo che ho appreso questa lezioncina, ma ora mi rendo conto che non l'ho mai appuntata sul blog, dove peraltro alcuni lettori potrebbero intuire il motivo di qualche mio cambiamento più o meno recente.
Allora...
Un po' di tempo fa, non specificherò quanto, mi sentivo alquanto insoddisfatta in un certo settore lavorativo. Avevo la sensazione (più o meno giustificata) di navigare a vista in un mare di approssimazione, improvvisazione, pressapochismo... insomma tutte cose che finivano per corrodere e far scadere anche gli aspetti positivi della situazione, che pure esistevano.
Ma ho tirato dritto senza esporre queste perplessità, ho pensato che margini di miglioramento ormai non ce ne fossero, ho ritenuto che fosse inutile affrontare la cosa.
Quando poi mi è stata offerta l'occasione di sfruttare un'alternativa, in un ambiente simile ma decisamente più organizzato sotto il profilo delle cose che "di là" mi infastidivano, ho preso l'occasione al volo. Professionalmente è stata una scelta che tuttora non rimpiango se non in minima parte, personalmente invece ho constatato che la mia scelta ha causato dispiacere a una persona (in realtà a diverse, ma per vari motivi una in particolare era quella più colpita).
La quale persona, posta di fronte alla mia scelta, non ha ritenuto opportuno espormi le sue perplessità e il fatto di essere stata almeno in parte ferita da me.
Risultato: ci sono voluti mesi perché io mi rendessi conto, annusando qui e là, che il mio operato non era stato preso bene. E mentre io me ne accorgevo e cercavo di capire se e dove avevo sbagliato, succedevano altre cose parecchio brutte, del tutto indipendenti da me, che però in circostanze diverse mi avrebbero vista in prima linea a reagire e a dare una mano (se possibile) a chi da queste cose brutte veniva ferito. Invece, non sapevo e non agivo.
E tutto questo perché?
Perché quando io ero insoddisfatta e pensierosa, non l'ho detto alla persona di cui sopra.
E quando la persona di cui sopra è rimasta dispiaciuta dalle mie azioni, non me lo ha detto.
La lezione, quindi, è semplice: mai tacere.
Se davvero si parla di persone che tengono le une alle altre, mai tenersi le cose dentro.
Quando si provano sensazioni importanti e persistenti, nel bene e nel male, sempre tirarle fuori. Se sono sensazioni belle (affetto, speranza, fiducia...), fa sempre bene sentirsele riportare. Se sono sensazioni brutte (insoddisfazione, dubbio, dispiacere), significa che c'è un problema e quindi bisogna almeno tentare di risolverlo. Altrimenti prima o poi i nodi vengono al pettine nel modo peggiore.
C'è un rovescio della medaglia?
Parziale. E' il concetto di "non te ne faccio più passare una".
E' un eccesso? Forse. Le punte hanno bisogno di tempo per essere smussate, e le lezioni hanno bisogno di esperienza per essere apprese e messe in pratica senza trasformarle in ciechi comandamenti.
Ma il punto di partenza, sono veramente convinta che sia giusto.
Mai tacere.
Allora...
Un po' di tempo fa, non specificherò quanto, mi sentivo alquanto insoddisfatta in un certo settore lavorativo. Avevo la sensazione (più o meno giustificata) di navigare a vista in un mare di approssimazione, improvvisazione, pressapochismo... insomma tutte cose che finivano per corrodere e far scadere anche gli aspetti positivi della situazione, che pure esistevano.
Ma ho tirato dritto senza esporre queste perplessità, ho pensato che margini di miglioramento ormai non ce ne fossero, ho ritenuto che fosse inutile affrontare la cosa.
Quando poi mi è stata offerta l'occasione di sfruttare un'alternativa, in un ambiente simile ma decisamente più organizzato sotto il profilo delle cose che "di là" mi infastidivano, ho preso l'occasione al volo. Professionalmente è stata una scelta che tuttora non rimpiango se non in minima parte, personalmente invece ho constatato che la mia scelta ha causato dispiacere a una persona (in realtà a diverse, ma per vari motivi una in particolare era quella più colpita).
La quale persona, posta di fronte alla mia scelta, non ha ritenuto opportuno espormi le sue perplessità e il fatto di essere stata almeno in parte ferita da me.
Risultato: ci sono voluti mesi perché io mi rendessi conto, annusando qui e là, che il mio operato non era stato preso bene. E mentre io me ne accorgevo e cercavo di capire se e dove avevo sbagliato, succedevano altre cose parecchio brutte, del tutto indipendenti da me, che però in circostanze diverse mi avrebbero vista in prima linea a reagire e a dare una mano (se possibile) a chi da queste cose brutte veniva ferito. Invece, non sapevo e non agivo.
E tutto questo perché?
Perché quando io ero insoddisfatta e pensierosa, non l'ho detto alla persona di cui sopra.
E quando la persona di cui sopra è rimasta dispiaciuta dalle mie azioni, non me lo ha detto.
La lezione, quindi, è semplice: mai tacere.
Se davvero si parla di persone che tengono le une alle altre, mai tenersi le cose dentro.
Quando si provano sensazioni importanti e persistenti, nel bene e nel male, sempre tirarle fuori. Se sono sensazioni belle (affetto, speranza, fiducia...), fa sempre bene sentirsele riportare. Se sono sensazioni brutte (insoddisfazione, dubbio, dispiacere), significa che c'è un problema e quindi bisogna almeno tentare di risolverlo. Altrimenti prima o poi i nodi vengono al pettine nel modo peggiore.
C'è un rovescio della medaglia?
Parziale. E' il concetto di "non te ne faccio più passare una".
E' un eccesso? Forse. Le punte hanno bisogno di tempo per essere smussate, e le lezioni hanno bisogno di esperienza per essere apprese e messe in pratica senza trasformarle in ciechi comandamenti.
Ma il punto di partenza, sono veramente convinta che sia giusto.
Mai tacere.
Mica facile
Una volta, tanto tanto tempo fa, l'idea di scrivere storie e magari sceneggiare fumetti non mi dispiaceva. Anzi, avevo pure cominciato... a scrivere storie, dico. E avevo iniziato a imparare qualcosina sull'arte della sceneggiatura. Anzi, di più: avevo iniziato a imparare dal più bravo sceneggiatore del mondo.
Poi, ormai più di dieci anni fa è successo qualcosa, e tutto è cambiato. Fine dell'ispirazione, fine del gusto per lo scrivere, fine dell'afflato creativo: perché va bene che spesso nella scrittura c'è tanto tanto tanto mestiere e poco poco poco sentimento, ma almeno quel poco bisogna pure che ci sia.
Insomma, un blocco. Il classico, maledetto blocco. La sensazione che nulla valga la pena. O che, al contrario, pochissime cose valgano la pena, ma poi la valgono talmente tanto (perché sono cose intense, enormi, importanti) che non sarei mai in grado di tirarle fuori in modo da rendere loro giustizia. Scriverei una certa frase, e chi legge ne capirebbe un'altra.
La sensazione persistente che non possa funzionare, che non servirebbe. E non dico che non servirebbe agli altri, ma proprio non servirebbe a me stessa: perché, quando anni e anni fa scrivevo, mica lo facevo sperando di pubblicare: mi mettevo semplicemente davanti al PC e partivo per la tangente e mi appassionavo, mi divertivo, passavo del tempo in un modo che mi piaceva. Non mi serviva altro.
Il blocco ha iniziato a sgretolarsi leggermeeeeente e lentameeeeente due o tre anni fa. E' fatto di una specie di cemento armato che si disgrega a spizzichi, a momenti, alla boia d'un giuda. Quando gli pare a lui. E con altrettanta imprevedibilità si ricostruisce i pezzetti che cadono. D'accordo, facendo una media posso dire che è più la materia che si sgretola, rispetto a quella che si ricostruisce, quindi a lungo andare dovrei recuperare la capacità di stare davanti al PC a divertirmi. Anzi, in parte l'ho già fatto buttando giù le minisceneggiature di alcune strisce umoristiche sui musical, per un progettino che però devo rimettere in piedi (fino all'anno scorso, né io né la persona che pensava ai disegni eravamo in grado di conciliare questa cosa con gli altri impegni di lavoro... poi con tutto il trambusto dovuto alla malattia e alla morte di mio padre, figuriamoci se ci sono tornata sopra).
Qualche mese fa, un bel pezzo di mattone è caduto tutto in una volta. Un'amica mi aveva chiesto se avrei potuto scrivere un breve quadro teatrale, su un determinato tema, perché voleva mettere in piedi un nuovo spettacolo di prosa con la sua compagnia amatoriale. Eravamo a cena fuori, sono tornata a casa verso mezzanotte. Mi sono piazzata al PC per appuntarmi due o tre cose che erano venute fuori nella nostra conversazione... e alle tre e mezza ero ancora lì, a scrivere come una forsennata, perché mi era già venuta l'idea, quell'idea che cercavo, proprio quella che secondo me si adattava alla richiesta dell'amica.
Poi il suo progetto teatrale è andato a monte per ragioni sue, ma io intanto avevo passato tre ore e mezza a scrivere di getto, di passione, di viscere. Non mi sentivo così bene da tanto di quel tempo. Non mi interessa se quel canovaccio sia venuto bene o male, non è quello il punto, anzi è senz'altro una cosa modesta. Ma intanto l'ho scritto, non è rimasto un'accozzaglia di appunti, l'ho proprio scritto. Per davvero!
Ora i mesi passano e io ogni tanto sento quel pizzicore in fondo allo stomaco, sento il baluginare di un'ideuzza, un leggero fremito alla punta delle dita. So di cosa vorrei raccontare, so che vorrei mettere in piedi un contesto di fantasia nel quale riversare pensieri e sensazioni fin troppo reali, so che vorrei recuperare un immaginario che mi appartiene da sempre e che di anno in anno muta e si trasforma, però senza mai abbandonare il suo nucleo originale.
I punti saldi quali sono?
Intanto vorrei una storia che parli prevalentemente di donne. Le vere protagoniste sarebbero tutte femminili. Certo, circondate da uomini, interagenti con uomini, amanti di uomini... ma la storia vera sarebbe la loro (e in un altro post spiegherò come mai).
Poi vorrei che ci fosse dell'azione. Azione epica, gloriosa, eroica. Quella che nel mondo vero non si trova quasi più da nessuna parte.
E poi vorrei storie che ruotassero intorno ai soli sentimenti per cui valga la pena stare al mondo, storie di fiducia anzi fedeltà, ma anche tradimenti e perdono, ma anche mera sopravvivenza e tutto cambia niente resta uguale, e prima parti prima torni, e amici diversi sono buoni in momenti diversi, storie di sentimenti a volte pragmatici e meschini, ma talmente umani da essere gloriosi a modo loro, storie di persone che sanno cosa vogliono e come, ma anche di persone che si dibattono nell'ansia e nel dubbio, la storia di chi non trova un senso alla propria vita e implora di poter almeno dare un senso alla propria morte...
Bè, come dire, sono di poche pretese.
Ma forse, un giorno, chissà.
Poi, ormai più di dieci anni fa è successo qualcosa, e tutto è cambiato. Fine dell'ispirazione, fine del gusto per lo scrivere, fine dell'afflato creativo: perché va bene che spesso nella scrittura c'è tanto tanto tanto mestiere e poco poco poco sentimento, ma almeno quel poco bisogna pure che ci sia.
Insomma, un blocco. Il classico, maledetto blocco. La sensazione che nulla valga la pena. O che, al contrario, pochissime cose valgano la pena, ma poi la valgono talmente tanto (perché sono cose intense, enormi, importanti) che non sarei mai in grado di tirarle fuori in modo da rendere loro giustizia. Scriverei una certa frase, e chi legge ne capirebbe un'altra.
La sensazione persistente che non possa funzionare, che non servirebbe. E non dico che non servirebbe agli altri, ma proprio non servirebbe a me stessa: perché, quando anni e anni fa scrivevo, mica lo facevo sperando di pubblicare: mi mettevo semplicemente davanti al PC e partivo per la tangente e mi appassionavo, mi divertivo, passavo del tempo in un modo che mi piaceva. Non mi serviva altro.
Il blocco ha iniziato a sgretolarsi leggermeeeeente e lentameeeeente due o tre anni fa. E' fatto di una specie di cemento armato che si disgrega a spizzichi, a momenti, alla boia d'un giuda. Quando gli pare a lui. E con altrettanta imprevedibilità si ricostruisce i pezzetti che cadono. D'accordo, facendo una media posso dire che è più la materia che si sgretola, rispetto a quella che si ricostruisce, quindi a lungo andare dovrei recuperare la capacità di stare davanti al PC a divertirmi. Anzi, in parte l'ho già fatto buttando giù le minisceneggiature di alcune strisce umoristiche sui musical, per un progettino che però devo rimettere in piedi (fino all'anno scorso, né io né la persona che pensava ai disegni eravamo in grado di conciliare questa cosa con gli altri impegni di lavoro... poi con tutto il trambusto dovuto alla malattia e alla morte di mio padre, figuriamoci se ci sono tornata sopra).
Qualche mese fa, un bel pezzo di mattone è caduto tutto in una volta. Un'amica mi aveva chiesto se avrei potuto scrivere un breve quadro teatrale, su un determinato tema, perché voleva mettere in piedi un nuovo spettacolo di prosa con la sua compagnia amatoriale. Eravamo a cena fuori, sono tornata a casa verso mezzanotte. Mi sono piazzata al PC per appuntarmi due o tre cose che erano venute fuori nella nostra conversazione... e alle tre e mezza ero ancora lì, a scrivere come una forsennata, perché mi era già venuta l'idea, quell'idea che cercavo, proprio quella che secondo me si adattava alla richiesta dell'amica.
Poi il suo progetto teatrale è andato a monte per ragioni sue, ma io intanto avevo passato tre ore e mezza a scrivere di getto, di passione, di viscere. Non mi sentivo così bene da tanto di quel tempo. Non mi interessa se quel canovaccio sia venuto bene o male, non è quello il punto, anzi è senz'altro una cosa modesta. Ma intanto l'ho scritto, non è rimasto un'accozzaglia di appunti, l'ho proprio scritto. Per davvero!
Ora i mesi passano e io ogni tanto sento quel pizzicore in fondo allo stomaco, sento il baluginare di un'ideuzza, un leggero fremito alla punta delle dita. So di cosa vorrei raccontare, so che vorrei mettere in piedi un contesto di fantasia nel quale riversare pensieri e sensazioni fin troppo reali, so che vorrei recuperare un immaginario che mi appartiene da sempre e che di anno in anno muta e si trasforma, però senza mai abbandonare il suo nucleo originale.
I punti saldi quali sono?
Intanto vorrei una storia che parli prevalentemente di donne. Le vere protagoniste sarebbero tutte femminili. Certo, circondate da uomini, interagenti con uomini, amanti di uomini... ma la storia vera sarebbe la loro (e in un altro post spiegherò come mai).
Poi vorrei che ci fosse dell'azione. Azione epica, gloriosa, eroica. Quella che nel mondo vero non si trova quasi più da nessuna parte.
E poi vorrei storie che ruotassero intorno ai soli sentimenti per cui valga la pena stare al mondo, storie di fiducia anzi fedeltà, ma anche tradimenti e perdono, ma anche mera sopravvivenza e tutto cambia niente resta uguale, e prima parti prima torni, e amici diversi sono buoni in momenti diversi, storie di sentimenti a volte pragmatici e meschini, ma talmente umani da essere gloriosi a modo loro, storie di persone che sanno cosa vogliono e come, ma anche di persone che si dibattono nell'ansia e nel dubbio, la storia di chi non trova un senso alla propria vita e implora di poter almeno dare un senso alla propria morte...
Bè, come dire, sono di poche pretese.
Ma forse, un giorno, chissà.
giovedì, aprile 24, 2008
Il gioco delle parti
Negli ultimi... uhm... sei mesi circa, per ben QUATTRO volte dicansi QUATTRO, mi è capitato di andare a fare shopping.
Una volta in centro nella città dove abito, un paio di volte a Bologna, la quarta ieri a Lucca.
Adesso, sia chiaro, io DETESTO fare shopping PER ME. Mi annoio a morte. Non sopporto l'idea di perdere più di cinque minuti in un negozio di abbigliamento (cinque minuti? cin-que-mi-nu-ti?!? ma scherziamo? ma io c'ho da fare!!!) e digerisco a fatica l'idea che, se proprio mi servono un paio di jeans da mettermi addosso, è ragionevole provarli per evitare di fare un acquisto sbagliato. Fare le prove dei vestiti per me è quella cosa che mi fa perdere minuti e minuti di vita per un obiettivo che mi interessa quanto mi interessano le omelie papali la domenica.
Sì, d'accordo, si salvano quei rari casi in cui vedo una maglietta con un bel disegno che mi folgora (spesso pacchiano, truzzo e tamarro), mi si accendono gli occhi e penso "MIA!". Ma sono eccezioni.
Però ho scoperto che mi diverte andare a fare shopping con gli altri e godermi il loro divertimento. In particolare, lo strano soggetto che ho accompagnato di recente in giro per negozi ha un talento naturale per scovare abitini, vestitini, toppettini e tanti altri "ini", che se li mettessi io mi sentirei (e sembrerei) la Strega Bacheca, ma su di lei, vuoi per abitudine, vuoi per stile, vuoi per forma fisica, ammetto che funzionano una meraviglia (fermo restando che i vestitini per me restano una roba odiosa, scomoda, inutile e - la cosa in assoluto più detestabile - che ti costringe a portarti dietro una borsetta).
Risultato, mi ritrovo non solo a fare la voce della coscienza in termini economici, ma pure a fornire opinioni, e a volte perfino ci azzecco.
"Questo è troppo corto".
"Questo assomiglia a uno che hai già".
"Uhm... ti fascia un po' troppo i fianchi."
"Questo è troppo leggero per una freddolosa come te."
"Questo ti sta una meraviglia."
"Trasparente? Ma quale trasparente? Sei paranoica!"
"Questo non azzardarti a prenderlo, è troppo caro".
Credo perfino di aver sfornato un "Ma poi con che scarpe lo metti?", che detto da me è miracoloso quanto lo sarebbe per un matematico risolvere il Teorema di Fermat con il pallottoliere.
Resta divertente questa specie di gioco di ruolo che scatena sguardi di perplessità nelle commesse. Io sembro una specie di scaricatore di porto in visita a un museo d'arte contemporanea, con l'occhio a metà fra lo sprezzante e il superiore. Lei tutta moine e sorrisini, evidentemente preda di un delirante scompenso ormonale che causa shopping ossessivo-compulsivo, fruga disinvoltamente fra scaffali e attaccapanni come fosse roba sua.
"Provo questo, questo e anche questo, poi magari quello e possibilmente quell'altro".
Dal momento in cui il camerino viene colonizzato, a volte tocca a me fare la spola tra lei e la commessa. "Questo lo prende, questo no perché le ingrossa il sedere, di questo serve una taglia in meno, questo se ci fosse di un'altra fantasia..."
Le commesse non hanno mai ben chiaro se stanno parlando con un'amica, una segretaria, una guardia del corpo, una parente... c'hanno un po' l'occhio vitreo, che torna normale quando lei esce dal camerino per guardarsi meglio allo specchio. Allora si rasserenano, si tranquillizzano: hanno nuovamente davanti un soggetto canonico con cui possono parlare la stessa lingua, un prototipo collaudato di acquirente, uno standard riconosciuto di cliente divertita e vanitosa da intortare, un essere umano con cui sono in grado di instaurare una conversazione adatta al contesto.
Il massimo che riescono a ottenere da me è una cosa del genere:
"Questo no, è un po' troppo corto".
"Ma come, arriva appena al ginocchio..."
"Lei se lo vede corto".
"Forse con una taglia in più potrebbe..."
"E'. Troppo. Corto."
Sguardi feroci. Le poverine non si rendono conto che sto solo alleviando le loro sofferenze, perché se lei si mette in testa che è troppo corto (o peggio, il cielo non voglia, che le fa il culo grosso), possono star tranquille che non hanno speranza di venderglielo. Ma le buone azioni non sempre vengono premiate.
Devo darle atto che ha gusto (sempre per quel niente che ne capisco). L'ultima volta a Bologna ha comprato un abito che, se lo indossa in una certa occasione formale e di lavoro che dico io, possiamo considerare la serata ben riuscita fin d'ora.
Comunque, alla fine di queste trasferte perditempo ci ritroviamo a girare per la città cariche di pacchetti e pacchettini (tutti suoi), esibendoci in dialoghi come:
"Quello viola era bellissimo, vero?"
"Nah... costava un casino."
"Che c'entra, io dicevo solo che era bello. Magari più tardi ripassiamo da lì."
"Non vorrai tornare a prenderlo! Non te lo puoi permettere, costava un pozzo di soldi!!!"
"Eeeh, però se li meritava tutti."
"Maddeché? Ti faceva due fianchi come le Dolomiti!"
"Non è vero!"
"Ma certo che non è vero, scema."
"Eh?"
"Almeno, se ti dico così non lo compri."
"Vaffanculo."
Alla fine, come tante cose nella vita, è un gioco delle parti.
Tipo, che ne so...
Lei, Pretty Woman.
Io, Gegia.
Una volta in centro nella città dove abito, un paio di volte a Bologna, la quarta ieri a Lucca.
Adesso, sia chiaro, io DETESTO fare shopping PER ME. Mi annoio a morte. Non sopporto l'idea di perdere più di cinque minuti in un negozio di abbigliamento (cinque minuti? cin-que-mi-nu-ti?!? ma scherziamo? ma io c'ho da fare!!!) e digerisco a fatica l'idea che, se proprio mi servono un paio di jeans da mettermi addosso, è ragionevole provarli per evitare di fare un acquisto sbagliato. Fare le prove dei vestiti per me è quella cosa che mi fa perdere minuti e minuti di vita per un obiettivo che mi interessa quanto mi interessano le omelie papali la domenica.
Sì, d'accordo, si salvano quei rari casi in cui vedo una maglietta con un bel disegno che mi folgora (spesso pacchiano, truzzo e tamarro), mi si accendono gli occhi e penso "MIA!". Ma sono eccezioni.
Però ho scoperto che mi diverte andare a fare shopping con gli altri e godermi il loro divertimento. In particolare, lo strano soggetto che ho accompagnato di recente in giro per negozi ha un talento naturale per scovare abitini, vestitini, toppettini e tanti altri "ini", che se li mettessi io mi sentirei (e sembrerei) la Strega Bacheca, ma su di lei, vuoi per abitudine, vuoi per stile, vuoi per forma fisica, ammetto che funzionano una meraviglia (fermo restando che i vestitini per me restano una roba odiosa, scomoda, inutile e - la cosa in assoluto più detestabile - che ti costringe a portarti dietro una borsetta).
Risultato, mi ritrovo non solo a fare la voce della coscienza in termini economici, ma pure a fornire opinioni, e a volte perfino ci azzecco.
"Questo è troppo corto".
"Questo assomiglia a uno che hai già".
"Uhm... ti fascia un po' troppo i fianchi."
"Questo è troppo leggero per una freddolosa come te."
"Questo ti sta una meraviglia."
"Trasparente? Ma quale trasparente? Sei paranoica!"
"Questo non azzardarti a prenderlo, è troppo caro".
Credo perfino di aver sfornato un "Ma poi con che scarpe lo metti?", che detto da me è miracoloso quanto lo sarebbe per un matematico risolvere il Teorema di Fermat con il pallottoliere.
Resta divertente questa specie di gioco di ruolo che scatena sguardi di perplessità nelle commesse. Io sembro una specie di scaricatore di porto in visita a un museo d'arte contemporanea, con l'occhio a metà fra lo sprezzante e il superiore. Lei tutta moine e sorrisini, evidentemente preda di un delirante scompenso ormonale che causa shopping ossessivo-compulsivo, fruga disinvoltamente fra scaffali e attaccapanni come fosse roba sua.
"Provo questo, questo e anche questo, poi magari quello e possibilmente quell'altro".
Dal momento in cui il camerino viene colonizzato, a volte tocca a me fare la spola tra lei e la commessa. "Questo lo prende, questo no perché le ingrossa il sedere, di questo serve una taglia in meno, questo se ci fosse di un'altra fantasia..."
Le commesse non hanno mai ben chiaro se stanno parlando con un'amica, una segretaria, una guardia del corpo, una parente... c'hanno un po' l'occhio vitreo, che torna normale quando lei esce dal camerino per guardarsi meglio allo specchio. Allora si rasserenano, si tranquillizzano: hanno nuovamente davanti un soggetto canonico con cui possono parlare la stessa lingua, un prototipo collaudato di acquirente, uno standard riconosciuto di cliente divertita e vanitosa da intortare, un essere umano con cui sono in grado di instaurare una conversazione adatta al contesto.
Il massimo che riescono a ottenere da me è una cosa del genere:
"Questo no, è un po' troppo corto".
"Ma come, arriva appena al ginocchio..."
"Lei se lo vede corto".
"Forse con una taglia in più potrebbe..."
"E'. Troppo. Corto."
Sguardi feroci. Le poverine non si rendono conto che sto solo alleviando le loro sofferenze, perché se lei si mette in testa che è troppo corto (o peggio, il cielo non voglia, che le fa il culo grosso), possono star tranquille che non hanno speranza di venderglielo. Ma le buone azioni non sempre vengono premiate.
Devo darle atto che ha gusto (sempre per quel niente che ne capisco). L'ultima volta a Bologna ha comprato un abito che, se lo indossa in una certa occasione formale e di lavoro che dico io, possiamo considerare la serata ben riuscita fin d'ora.
Comunque, alla fine di queste trasferte perditempo ci ritroviamo a girare per la città cariche di pacchetti e pacchettini (tutti suoi), esibendoci in dialoghi come:
"Quello viola era bellissimo, vero?"
"Nah... costava un casino."
"Che c'entra, io dicevo solo che era bello. Magari più tardi ripassiamo da lì."
"Non vorrai tornare a prenderlo! Non te lo puoi permettere, costava un pozzo di soldi!!!"
"Eeeh, però se li meritava tutti."
"Maddeché? Ti faceva due fianchi come le Dolomiti!"
"Non è vero!"
"Ma certo che non è vero, scema."
"Eh?"
"Almeno, se ti dico così non lo compri."
"Vaffanculo."
Alla fine, come tante cose nella vita, è un gioco delle parti.
Tipo, che ne so...
Lei, Pretty Woman.
Io, Gegia.
sabato, aprile 19, 2008
Grandi soddisfazioni con antiche radici
Ieri, nel corso di un viaggio di lavoro, ho avuto occasione di incontrare e rivedere, dopo parecchio tempo, un amico che in passato, per un breve periodo, lavorò con me. Faceva parte di una squadra di ragazzi (ora non più sbarbini, eh no, il tempo passa anche per noi) che avevo messo insieme in una situazione abbastanza disperata, ma che avevo dovuto in qualche modo affrontare. Ovvero: prendere le redini di una rivista che era stata abbandonata dal suo direttore editoriale, per una serie di vicende che ovviamente vedevano torti e ragioni sia da parte sua che da parte dell'editore. Comunque fosse, a me era toccato il compito di rimettere in piedi questa rivista... diciamo pure un compito impossibile, dato il periodo e data l'inesperienza. Ma bisognava comunque provare.
Il risultato non mi hai mai soddisfatta in termini di durata: appena una decina di numeri... però mi ha lasciato enormi soddisfazioni in termini di lavoro di squadra. Molte delle persone che avevo coinvolto a suo tempo (vuoi perché le conoscevo di persona, vuoi perché erano conoscenti di conscenti) erano all'epoca studenti, o neolaureati, o semplici appassionati, tutti desiderosi di cimentarsi nella stesura di articoli o recensioni. Gente sveglia, attenta, curiosa, che si trovava sparsa per diverse città ma era contenta di avere questa cosa in comune e aveva palesemente una marcia in più.
Adesso, uno di loro è ricercatore universitario e sforna in continuazione libri (belli!) sui cartoni animati e i fumetti.
Un altro è un apprezzato sceneggiatore di cartoni animati, che ha lavorato anche per produzioni importanti.
Un altro è traduttore e adattatore di fumetti e serie animate giapponesi.
Un altro ha fondato un service di prodotti per l'editoria e gli audiovisivi, e si sta affermando come esperto di cinema d'animazione.
Un altro l'ho un po' perso di vista, ma so che ha scritto almeno un buon libro sul fumetto giapponese.
E un altro è appunto quello che ho incontrato ieri, nella sua veste di direttore di un nuovo festival di cinema d'animazione.
Non sono orgoliosa di tutte le mie esperienze lavorative passate. E quell'esperienza in particolare, è sempre stata molto controversa e pesante da molti punti di vista. Ma della squadra che avevo selezionato e che aveva lavorato insieme a me per quella rivista, sono (e sono sempre stata) molto fiera. Certo nessuno di loro è più lo sbarbino di allora, alcuni di loro non sono poi tanto distanti da me in termini di età, e parecchi di loro mi hanno sopravanzata in termini di carriera. Ma in fondo, almeno in parte non smetterò mai di considerarli "i miei ragazzi". :-)
Il risultato non mi hai mai soddisfatta in termini di durata: appena una decina di numeri... però mi ha lasciato enormi soddisfazioni in termini di lavoro di squadra. Molte delle persone che avevo coinvolto a suo tempo (vuoi perché le conoscevo di persona, vuoi perché erano conoscenti di conscenti) erano all'epoca studenti, o neolaureati, o semplici appassionati, tutti desiderosi di cimentarsi nella stesura di articoli o recensioni. Gente sveglia, attenta, curiosa, che si trovava sparsa per diverse città ma era contenta di avere questa cosa in comune e aveva palesemente una marcia in più.
Adesso, uno di loro è ricercatore universitario e sforna in continuazione libri (belli!) sui cartoni animati e i fumetti.
Un altro è un apprezzato sceneggiatore di cartoni animati, che ha lavorato anche per produzioni importanti.
Un altro è traduttore e adattatore di fumetti e serie animate giapponesi.
Un altro ha fondato un service di prodotti per l'editoria e gli audiovisivi, e si sta affermando come esperto di cinema d'animazione.
Un altro l'ho un po' perso di vista, ma so che ha scritto almeno un buon libro sul fumetto giapponese.
E un altro è appunto quello che ho incontrato ieri, nella sua veste di direttore di un nuovo festival di cinema d'animazione.
Non sono orgoliosa di tutte le mie esperienze lavorative passate. E quell'esperienza in particolare, è sempre stata molto controversa e pesante da molti punti di vista. Ma della squadra che avevo selezionato e che aveva lavorato insieme a me per quella rivista, sono (e sono sempre stata) molto fiera. Certo nessuno di loro è più lo sbarbino di allora, alcuni di loro non sono poi tanto distanti da me in termini di età, e parecchi di loro mi hanno sopravanzata in termini di carriera. Ma in fondo, almeno in parte non smetterò mai di considerarli "i miei ragazzi". :-)
giovedì, aprile 03, 2008
Ed è arrivata pure Suzumiya...
Poco ma sicuro, a volte il mio lavoro mi porta ad avere a che fare con piccole (ma divertenti) follie.
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