Avete presente quando, due o tre giorni fa, dicevo che ero un po' giù perché avevo subìto una specie di ingiustizia?
Le cose non sono cambiate da allora, ma di certo io le ho razionalizzate. Dopotutto, è quello che faccio sempre. In fondo la mia laurea è in filosofia, mica in giurisprudenza!
Il casus belli è che qualcuno ha messo una sua questione personale davanti a una mia questione professionale e intende pertanto obbligarmi, usando fino in fondo l'autorità che è cosciente di avere su di me, ad agire in un certo modo tale da salvaguardare la sua questione personale, a totale discapito della mia questione professionale.
Come nel 90% dei casi della vita, in fondo è una questione di priorità darwiniana: "io vengo prima di te (anche se, trattandosi anche di questioni di lavoro, non avrei il diritto di scavalcarti in questo modo)". Lo facciamo tutti, a fasi alterne. Siamo sempre tutti capaci di anteporre il nostro bene a quello altrui, specie quando ci facciamo l'idea che l'esigenza altrui non sia certo questione di vita o di morte, mentre la nostra sì.
A dirla tutta, è vero. La mia questione professionale ha una certa importanza, ma non avviene la fine del mondo se non la curo. La sua questione personale è invece estremamente importante e delicata. Quindi, in termini di priorità, non posso negare l'esistenza di una gerarchia fra le due cose.
Allora, che cos'è a darmi fastidio?
Primo, mi dà fastidio che probabilmente la persona in questione nemmeno si è resa conto di aver operato questa sorta di prepotenza. Ho avuto la sensazione che abbia deciso le cose come se il tutto le fosse semplicemente dovuto, come se fosse scontato che io avrei dovuto fare a modo suo.
Secondo, mi dà fastidio che non abbia lasciato alcun margine di contrattazione, in sostanza che mi abbia impartito degli ordini senza nemmeno tentare di vedere se c'era almeno, che so, la possibilità di un compromesso.
Terzo, mi dà fastidio che questa persona, ammesso e non concesso che si sia resa conto del numero che mi stava combinando, non abbia nemmeno accennato una vaga scusa, un'ammissione di responsabilità, nulla del genere. Sarebbe bastato che mi dicesse qualcosa del tipo: "Lo so che sto anteponendo i miei casini a tutto il resto, lo so che questo a volte è ingiusto e ti ferisce, ne sono spiacente e ti prego solo di avere pazienza e di volermi bene lo stesso". Ecco, a questo punto io non avrei avuto più niente da dire, ma proprio niente.
Insomma, tagliando corto, è il mio amor proprio ad esserci rimasto male. Ho rimuginato su questa cosa a lungo e ho pensato che, una volta leccate le ferite (e non solo le mie, perché temo di avere a mia volta inferto qualche colpetto, in reazione a quelli che mi arrivavano), se davvero vogliamo venire a capo della cosa e mettere tutti i pezzi al loro posto, in modo da ripartire per benino e senza strascichi (nel lavoro e nella vita), bisogna pur riprendere il discorso, senza timore di screzi o imbarazzi. Non sopporto le robe a metà, i chiarimenti mancati, le discussioni incompiute (soprattutto quando ho la certezza che ci siano affetto e maturità sufficienti, sia da una parte che dall'altra, per arrivare in fondo nel migliore dei modi).
Così, quando stasera la famosa persona mi ha dato un colpo di telefono, fra le varie cose ho accennato anche un "beh, poi abbiamo un discorso in sospeso... alla prima occasione ne parliamo un attimo".
Risposta: "Eh? Quale discorso?"
Com'è che dicevo, poco fa? Mi dà fastidio che probabilmente la persona in questione nemmeno si è resa conto, ecc ecc. Roba da pazzi! No, basta, ci rinuncio, a volte far filtrare certe cose nei neuroni altrui è un'impresa troppo irrealizzabile.
Non è vero. In realtà non ci rinuncio... mai e poi mai.
Eppure, sento un pelino di stanchezza e rassegnazione farsi strada fra i miei, di neuroni... :-(
Nessun commento:
Posta un commento