Siccome questo blog è letto sostanzialmente da degli amici, ho deciso di "confessare" su di esso il mio chiodo fisso, di cui a volte mi capita di parlare con i suddetti amici. Francamente trovo che sarebbe inutile parlare (qui e altrove) di tante cretinate senza poi avere il coraggio di affrontare le cose più serie, quelle che sotto sotto scavano sempre e non se ne vanno mai. Quelle che riguardano la mia percezione della vita, del mondo, di quelle cose troppo grosse per potere capire fino in fondo ma che, volente o nolente, avverto in una certa maniera che da tanto tempo mi lascia del grande amaro in bocca (alimentato anche dal fatto che, al momento, non ho la fortuna di credere in alcun tipo di fede - o almeno di crederci fino in fondo).
Negli ultimi tre giorni ho lavorato presso una mostra, allestita per la Settimana Della Memoria, intitolata La Shoà a fumetti. Praticamente facevo da assistente a un esperto che forniva alle classi delle scuole medie alcune nozioni di base sui fumetti che hanno parlato dell'Olocausto, fra i quali ovviamente il posto d'onore spetta a Maus di Art Spiegelman.
A furia di sentir ripetere questa lezione, ho focalizzato alcune immagini meglio di altre e ho deciso che quella per me più straziante (ripeto, PER ME, una sensazione del tutto personale dovuta alla MIA e SOLO MIA percezione delle cose) è quella che ho riportato qui.
Perché questa immagine mi fa tanta impressione?
Più che l'immagine in quanto tale, sono le didascalie (scritte nel linguaggio traballante e sgrammaticato di un ebreo polacco immigrato dopo la guerra negli USA, ricordando il momento della deportazione e l'arrivo ad Auschwitz): "Siamo arrivati a campo di concentramento di Auschwitz. E sapevamo che di qui noi non uscivamo più. Sapevamo... che ci uccidono con gas e poi buttano in forni. Era il 1944... sapevamo tutto. Ed eravamo qui".
Sapevamo è la parola chiave. La MIA parola chiave.
In effetti, non è ad Auschwitz che sto pensando. La conoscenza astratta di quel che accadde allora non ha mai avuto la possibilità (ne mai ce l'avrà) di filtrare davvero attraverso la mia mente, perché, io credo, è qualcosa di troppo grande e inconcepibile per essere compreso da chi non ci è passato.
Ma credo che la consapevolezza sia, nelle situazioni drammatiche di ogni ordine e grado (da quelle totalmente allucinanti come l'Olocausto a quelle più usuali e quotidiane come la nostra semplice esistenza in quanto tale), la nostra condanna.
Nostra nel senso "di noi esseri umani".
Noi sappiamo. Sappiamo troppo. E troppo poco.
Sappiamo che la nostra vita ha un termine. Che siamo condannati a una fine. Sappiamo che, nella maggior parte dei casi, la nostra aspettativa di vita si allunga a scapito della qualità di quella stessa vita. Sappiamo che, negli anni della vecchiaia, è possibile e sempre più probabile che non solo il nostro corpo ceda, ma anche la nostra mente. Sappiamo che potremmo ridurci a corpi viventi senz'anima. Sappiamo che dovremo essere accuditi per ogni minima idiozia. Sappiamo che diventeremo un peso morto per i nostri familiari. Sappiamo che dovremo affrontare umiliazioni e solitudine. Sappiamo che arriveremo a un punto in cui l'unico obiettivo di una giornata vuota, inutile e noiosa sarà di far sera. Sappiamo che, da un certo momento in avanti, la morte sarà l'unico evento che ci attende e perderemo così il senso del futuro.
E se questo non accadrà negli anni della vecchiaia più avanzata, è perché accadrà prima. Perché (a meno di non far parte di una minoranza di persone che lasciano questo mondo all'improvviso), ci ammaleremo e, andando oltre le bugie che ci verranno dette da amici e parenti, capiremo che la fine sta arrivando. E penseremo solo ad essa perché, anche qui, perderemo il senso del futuro, quell'unica cosa che dà un senso allo scorrere dei giorni.
Sappiamo tutto questo.
E non sappiamo il perché di tutto questo. Forse lo speriamo, forse alcuni credono di saperlo, eppure anche loro in fondo al cuore, lo ammettano oppure no, socraticamente sanno di non sapere. Perché, se avessero davvero le idee tanto chiare, non proverebbero dolore e disperazione alla morte di una persona cara, non sentirebbero quella pugnalata ancestrale che viene sferrata da qualche parte nel profondo della coscienza e dice "per lui/lei è tutto finito e per me è solo questione di tempo".
Come per Vladek Spiegelman ad Auschwitz (e so che il paragone è oltraggioso e irriverente), noi sappiamo tutto questo.
E siamo qui.