Da tempo, per numerose ragioni, faccio fatica a impegnarmi nella lettura di un solo libro alla volta; c'è sempre qualcosa che si inserisce, qualcosa che devo leggere al volo, qualcosa che non può aspettare... però, con la dovuta calma e pazienza, ciò che inizio, poi lo finisco.
Ma una fatica come con Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, non l'avevo mai fatta. Una fatica bella e appassionante, sia chiaro, una fatica di quelle che vorrei continuassero a lungo; e forse proprio per questo procedo a rilento, per rimandare il più possibile la lettura dell'ultima pagina.
C'è uno stile impegnativo, che mescola italiano e inglese non solo pescando dei vocaboli da una lingua e inserendoli nell'altra, ma anche adattando all'italiano costruzioni sintattiche anglosassoni, roba che se negli ultimi anni non avessi intensamente coltivato il mio inglese (e comunque non basta mai), capirei la metà di quel che c'è scritto. Ci sono personaggi asciutti, descritti con tale sicurezza da farteli sentire veri come se ti stessero di fronte, con i loro vestiti infangati, le loro barbe sfatte e le loro armi che si inceppano. Ci sono eventi troppo quotidiani per essere avventurosi, troppo prosaici per lasciare spazio all'epica o alla poesia, eppure ogni azione di guerriglia ti sembra di vederla, ogni partigiano caduto ti sembra di conoscerlo, ogni contadino coinvolto ti sembra di capirlo intimamente.
Vado avanti poco poco alla volta, due o tre pagine al giorno, lasciando scorrere il tempo lentamente, proprio come per Johnny che vive una Resistenza fatta soprattutto di lunghe attese, di inverni freddi che non passano mai, di poche, sparute azioni di guerriglia che sembrano non portare mai a niente.
Quest'estate avevo divorato Una questione privata (dello stesso autore) nell'arco di un paio d'ore, scorrendo pagina dopo pagina quasi in preda a un raptus mistico; invece, Il partigiano Johnny mi sta facendo riscoprire il piacere della lentezza e della costanza. Piano, piano, piano.
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